Hear my voice, Gnut e il suo ultimo lavoro: “Porto le radici di Napoli nel mondo”


Lui si chiama Claudio Domestico, in arte GNUT, ed è una di quelle belle eccezioni atemporali che costellano il panorama vasto della nuova scena pop partenopea (e non solo).

Di pop non ci sarebbe neanche tantissimo per un artista figlio lontano dalla convenzionalità del suo tempo, capace di coniugare la tradizione alla Murolo, tra le corde della sua chitarra e quel graffio di voce, fino al cantautorato di Nick Drake e all’innovatività di Sufjan Stevens.

Progetto intimo e poetico che mescola l’anima del cantautore melodico alle ambientazioni blues e folk, attivo ormai da dieci anni tra discografia e la partecipazione a diversi festival. Lo incontriamo per la presentazione del suo ultimo lavoro, un mini EP di quattro brani nell’ambito del progetto “Hear my voice” , registrato negli studi francesi delle Cavennes con l’amico e collaboratore Piers Faccini e con l’ausilio dei testi del poeta napoletano Alessio Sollo.

I brani ci raccontano dell’espressione più autentica del sentimento passionale, l’amore come “’o bbene” che solo il dialetto è capace di coniugare nelle liriche compositive. L’album uscirà in versione speciale vinile anche in Francia e Inghilterra, mentre l’artista sarà chiamato ad una grande serata di presentazione in città il prossimo 23 di Maggio al Teatro Sannazaro di Napoli.

Il tuo nuovo lavoro discografico, il progetto “Hear my voice”, si divide in quattro brani in cui riconosciamo ancora lo Gnut passionale, intimo con un grande richiamo alla serenata tradizionale. Come ti poni rispetto a certe sonorità lontane dalla contemporaneità di tendenza e come è andata la produzione dei brani e la collaborazione con Alessio Sollo e Piers Faccini?

“In realtà è stato un lavoro molto lento, durato circa due, tre anni, per trovare il modo di fare uscire quelle canzoni. Io avevo un disco già pronto da far uscire in italiano con la stessa etichetta in Francia, essendo però una etichetta di musica world, mi sembrava bello giocare molto con il dialetto e proporlo all’estero, giochiamo quindi anche molto con la tradizione, usiamo il mandolino come la chitarra elettrica, tra moderno e passato senza mai discostarsi dalle radici, legato ad esempio al repertorio di Murolo, e quindi anche qualcosa di più interessante da proporre al di fuori dei confini, legato al cliché di Napoli ma con qualcosa di moderno sicuramente nella scrittura e nelle sonorità, un lavoro fuori dal tempo, anche nella sua post produzione (una versione in vinile che uscirà solo per l’estero).”

Di conseguenza che ruolo gioca il dialetto napoletano, mezzo di espressione necessario, modalità attraente di incanalare la canzone? Può anche risultare un limite per chi mira ad una musica globalizzata?

“In realtà non c’è un ragionamento dietro, c’era la voglia di cimentarsi da quando abbiamo cominciato a musicare le poesie d’amore di Alessio Sollo. Abbiamo riflettuto sul fatto che è interessante scrivere determinate cose in napoletano, dove, per esempio, non esiste il verbo amare, esiste sì “l’ammore”, e quindi si cercano figure retoriche, metafore e ogni tipo di escamotage per esprimere questo concetto, e lui è molto bravo, scrive tante poesie per farlo. Abbiamo mischiato queste strofe creano musica di tradizione, ma anche blues o africana per esempio. In effetti è qualcosa di molto distante dalle mode o dalla musica moderna, però mi interessava farlo quanto più vicino alle radici possibile.”

Ascoltando la tua musica, mi hanno sicuramente ricordato grandi cantautori del passato come Tim Buckley o Nick Drake, ma anche qualcosa di moderno come Surfjan Stevens. Se invece dovessi rapportati alla letteratura o a dei testia quali artisti italiani ti senti vicino?

“Complicato, rispetto ai testi dovresti chiedere ad Alessio che si è occupato della maggior parte della scrittura, da parte musicale non ho dei riferimenti particolari magari dei dischi preferiti, su Napoli mi piace molto l’approccio di Roberto Murolo, anche nel modo di cantare e negli arrangiamenti, scarni e con un filo di voce, ma anche Pino Daniele e le cose che sono arrivate dopo. Mi piace molto ad esempio il blues americano degli anni ’30 e ’40, il folk inglese, la musica africana del Mali, quello che faccio è la fusione di un po’ tutte le cose che mi influenzano, che mi hanno colpito ma sempre legato alle radici.”

La cosa che mi incuriosiva, rispetto a quella che possiamo definire la scena “newpolitana”, che è bello non vedere attriti e concorrenze fra artisti ma una sorta di macro collaborazione nella missione della salvaguardia della bellezza. Hai riscontrato questa cosa?

“Il rapporto è proprio come appare, siamo nati nella stessa città, siamo appassionati di musica, facciamo lo stesso mestiere e amiamo fare musica in generale. Quindi diventa molto naturale cominciare a condividere serate, diventare amici, molti progetti nascono nella collaborazione che è molto spontanea, magari davanti ad un bicchiere di vino o al ristorante, come ad esempio il progetto “Tarall&Wine” con Dario Sansone (Foja) o alla produzione del loro disco o quella della Maschera, Capitan Capitone. Tutto nasce dalla stima reciproca che è reale, la voglia di amicizia e di musica che ti fa fare magari anche cose che non pensavi avresti fatto. Siamo inoltre anche abbastanza diversi musicalmente e lontani da certe mode, non seguiamo nessuna tendenza, alla base c’è la condivisione, la musica e l’amicizia.”

Rispetto alla socialità e quella che è l’identità napoletana, come si pone il ruolo del cantautore contro certi cliché, luoghi comuni o ad una Napoli raccontata in maniera cruda e poco affine alla realtà?

“Cerco di raccontare la mia visione delle cose, rispetto al mio punto di vista sperando che qualcuno si possa immedesimare nella mia realtà. Dal punto di vista della “napoletanità” credo può diventare un problema quando la trasformi in campanilismo, in conflitto verso l’altro o con un tifo sfrenato contro qualsiasi cosa non venga da Napoli. In alcuni casi può diventare una sorta di Lega al contrario tipo una “Lega Sud” ed è sbagliato, come in tutte le altre città del mondo ci sono cose belle e cose brutte, omaggiare le cose belle e non nascondere cose le cose brutte e bisogna farlo con tutti, visto che oltre che essere napoletano sono cittadino del mondo. L’importante è non chiudersi troppo in mentalità provinciali, che può diventare un limite per la nostra città.”

Rispetto alla napoletanità e avendo tu collaborato con Alessandro Rak per il film “L’arte della felicità”, riscontri questa sorta di exploit o comunque rinascita da un punto di vista visivo e cinematografico, come il successo agli ultimi David di Donatello?

“Credo che Napoli sia sempre stata piena di talento e di cose interessanti, ci sono stati magari dei momenti storici in cui certe cose fatte hanno avuto riscontro e risonanza, altri momenti più bui in cui si è comunque sempre creato. Credo stiano uscendo tante cose dopo un periodo di buio ora, avendo anche dei riscontri mediatici importanti nel bene o nel male, come nel caso di Gomorra o anche un versante bellissimo come quello raccontato da Rak (La gatta cenerentola). Alla fine conta che a Napoli si sappia ci sia grande fermento, è qualcosa che fa bene alla città.”

Riguardo te, hai in serbo un grande concerto che terrai al Teatro Sannazaro il prossimo 23 Maggio. Oltre questo quali sono gli imminenti impegni che ti riguardano?

“Comincerò presentando il disco il prossimo 12 Maggio a Milano, il 23 sarò a Napoli e il 26 sarò all’Angelo Mai di Roma. Ad Agosto sarò invece con la promozione in Francia e in autunno prevedo un po’ di concerti lì e in Inghilterra. Il concerto al Sannazaro è uno sfizio che mi sono voluto togliere, sulla mia città ho sempre cercato di fare poca strategia, per mantenere quella libertà di suonare anche al baretto sotto casa o nel locale piccolino del centro dove ho sempre suonato. Ho colto l’occasione dell’uscita di questo ep per farmi questo grande regalo e inviterò anche la mia famiglia, ci ho suonato due volte come ospite prima con i Foja poi con Maldestro e mi sono innamorato di quel teatro.”


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