La chiesa del Rosariello alle Pigne: perché i napoletani la chiamano così


La chiesa del Rosariello alle Pigne, così chiamata perché sorge in quello che un tempo era chiamato Largo delle Pigne, oggi Piazza Cavour, è un’opera di uno degli architetti più famosi dell’epoca barocca del napoletano, Arcangelo Guglielmelli.

La valle, in principio, era un fondo formato dall’attuale via delle Cavaiole e raccoglieva le acque che scendevano dalle circostanti alture di S. Potito, di S. Teresa e della Stella. Dalla parte di mezzogiorno era chiusa dalle alte mura della città, circondate da un profondo fosso, le quali giungevano alla Porta di S. Gennaro. Tutto lo spazio a levante e settentrione, dalla porta fino a Capodichino e a Porta Capuana, era una vasta spianata incolta.

Ma di qui ai colli non era deserto. I sobborghi di Largo delle Pigne hanno un’origine remotissima. Gli Enmelidi, che dettero nome alla prossima valle della Sanità, fanno argomentare che il luogo fosse abitato fin dai tempi primitivi della nostra città da una Fratria, le cui tombe furono rinvenute davanti alla Porta S. Gennaro, nel 1787, e dalle iscrizioni di esse si fu certi che qui avessero il loro sepolcreto. Tant’è che il nome di “Vergini”, dato alla contrada, deriva appunto da loro.

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Tutta la contrada extramurale era l’antico pomerio oltre il muro settentrionale dopo l’ampliazione aragonese e spagnola e nei secoli XV e XVI era sparsa di alberi di pino, dai napoletani detti Pigne,che diedero, appunto, il nome al Largo. Più tardi, nel 1730, questi furono tagliati per ordine di alcune monache, le quali affermavano che sotto l’azione del vento, questi facessero scuotere le mura della chiesa del Rosariello.

Dalla Porta di S. Gennaro fino alla Chiesa S. Carlo all’Arena si era andato via formando un gruppo di case che rendeva angusta la via, frequentata solo da coloro che abitavano nei prossimi borghi e, quantunque fosse l’unica via dove i forestieri che non vengono da mare entrano nella città, è sempre stata fino al tempo dell’occupazione militare, in pessimi termini. Nel mezzo c’era un profondo e largo torrente, formato dalle acque piovane che discendevano dai vicini colli ed alture, che, finché la città di Napoli fu circoscritta nei confini delle sue antiche mura, faceva il suo corso fino al mare, seguendo le pendenze naturali, senza recar nessun tipo di danno. Ma quando la città si allargò e spinse i suoi confini senza interruzione fino alle radici di quei colli e le case sorsero ai due lati delle antiche vie naturali già tracciate dal corso delle acque, allora cominciarono i danni e le distruzioni. Sino al 1750 non si fece mai nulla per rimediare ed evitare i danni, salvo la costruzione di altissimi marciapiedi ai lati delle vie, scoscesi e irregolari, e di ponti di legno e ferro, che piantati in mezzo alla via, servivano per passare da una riva all’altra.

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Fu in queste circostanze che Guglielmelli dovette cimentarsi per far fronte alla richiesta della costruzione di un grande Conservatorio dedicato alla Santissima Vergine del Rosario, soprattutto per togliere quello sconcio da una delle contrade più popolose della città.

La locale letteratura artistica settecentesca è concorde nel collocare intorno agli anni 1630 la fondazione dell’istituto, con la direzione del P.M.F Michele Torres dell’Ordine dei Predicatori e il denaro pervenuto dai Fratelli della Congregazione del Santissimo Rosario. Inizialmente, Scuola e Collegio dei Vergini intitolato Santa Maria del SS. Rosario, era situato in un palazzo contiguo alla chiesa Parrocchiale di S. Maria della Rotonda a S. Angelo a Nido, dove stette per molti anni.

Ma la primitiva sede non gli consentiva un adeguato ampliamento; perciò i Domenicani ricercarono un’adeguata area fuori dalla cinta muraria, ove trasferire l’istituto religioso. La scelta cadde su di un’area ubicata nella valle dei Vergini, assai ambita dagli ecclesiastici perché un tempo centro di vita religiosa molto intensa, come dimostrano le numerose antiche catacombe, quali quelle di S. Gennaro e di S. Gaudioso, e le basiliche paleocristiane, testimonianza di uno dei momenti più interessanti della cultura tardo-antica napoletana.

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I primi pagamenti per la realizzazione della nuova fabbrica sono datati nel 1690, anno in cui le monache, al fine di realizzare un’opera moderna, conferirono l’incarico della redazione del progetto ad Arcangelo Guglielmelli, architetto molto in vista in quegli anni per il restauro di S. Restituta; egli ebbe per la prima volta l’opportunità di realizzare un’opera ex novo, essendosi sino ad allora cimentato in restauri e ristrutturazioni di antiche fabbriche.

La chiesa del Rosariello, dalla pittoresca facciata prospiciente il Largo delle Pigne, presenta una notevole diversità con i partiti decorativi dell’interno, meno aderente, quest’ultimo, al gusto della cultura architettonica napoletana del Settecento. Ciò ha posto spesso il problema circa l’individuazione della paternità del prospetto, anche in rapporto ai tempi diversi di realizzazione. Infatti la facciata verrà terminata solamente intorno al 1720.

Una chiesa a pianta centrale preesisteva al rifacimento tardo-seicentesco. E’ assai probabile che il nuovo impianto a croce greca, con le braccia trasversali più corte delle longitudinali, venne imposto al Guglielmelli dal perimetro dell’area già programmata nel progetto di ampliamento del conservatorio, redatto molti anni prima. Infatti, i lavori di sistemazione, che inglobavano nell’antica struttura alcune fabbriche adiacenti, erano già iniziati nel 1674, grazie alle numerose donazioni di Gaspare Roomer, ricco mercante fiammingo, famoso mecenate e collezionista di opere d’arte.

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Le ricche donazioni del Roomer, anche se singolari per la notevole entità, sono esemplari di un costume assai diffuso in quei tempi, di generosi lasciti agli ordini ecclesiastici, ritenuti dai più un investimento spirituale, un acquisto di meriti per la salvezza dell’anima.

Il classicismo cinquecentesco condizionò a tal punto l’ambiente culturale napoletano, che neanche la rilevante personalità artistica di Cosimo Fanzago riuscirà a cogliere le nuove istanze spaziali che, a partire dagli anni trenta, caratterizzarono la produzione degli architetti protagonisti del barocco romano. ll’interno, infatti, gigantesche colonne, inglobate nella muratura ed inquadrate da due lesene angolari, quasi un ricordo delle colte soluzioni michelangiolesche della Laurenziana, conferiscono all’ambiente una sorta di accento neoclassico, rimarcato dal colore grigio, utilizzato per gli elementi verticali e dallo scuro bardiglio dell’alta zoccolatura basamentale. Lesene e colonne acquistano una maggiore plasticità per la presenza di profonde scanalature, ottenute con una sorta di toro ritorto; una soluzione questa ispirata forse dal Lazzari del S. Severo alla Sanità, terminato qualche anno prima. La colonna alveolata rispetto alla parete fu usata anche in S. Maria delle Grazie a piazzetta Mondragone: il Guglielmelli ne dovette essere condizionato, tanto da riproporre lo stesso linguaggio nella ristrutturazione di S. Maria Egiziaca a Pizzofalcone, dove però fu costretto ad aumentare lo spessore murario, fino ad inglobare quasi totalmente le colonne.

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Il Guglielmelli riutilizza, sia nell’Egiziaca, sia in altre successive opere, numerosi elementi tratti dal repertorio figurativo fanzaghiano, quali i pilastri in bugnato rustico, il tracciato curvilineo per l’ingresso, con due rampe ellittiche e l’espediente di sollevare il piano di calpestio della chiesa rispetto alla quota della facciata. L’ampia cupola, con gli otto finestroni costituenti fonte principale di luce, illuminando fortemente lo spazio centrale della chiesa, è largamente rimaneggiata, probabilmente per curare i dissesti, ed è oggi priva di decorazioni, contribuendo così, con il suo disegno essenziale, a conferire all’edificio un accento neoclassico, sebbene lo slanciato profilo denunzi il tentativo del Guglielmelli, di staccarsi dalla staticità di tipo classicistico delle cupole fanzaghiane, in aderenza ai principi di rivoluzione spaziale degli architetti barocchi.

Inoltre l’aggiunta posteriore dell’atrio e della facciata è evidente: il maestro fu costretto a contrarre lo spazio vestibolare per realizzare all’esterno un atrio sufficientemente ampio da contenere la scala che avrebbe consentito di superare il dislivello esistente tra Largo delle Pigne, all’epoca quanto mai accidentato, e piano di imposta nella chiesa. L’architetto, per conferire un nuovo assetto allo spazio interno, aggiunge, quale elemento conclusivo, un coro settecentesco, un prezioso arredo, attribuibile a maestranze colte, educate al versatile ed attivissimo artigianato napoletano, operante a stretto contatto con l’architetto Antonio Giretti, protagonista della stagione del rococò napoletano.

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La chiesa era inoltre custode di prestigiosi quadri risalenti a Luca Giordano, sull’altare maggiore, in onore della Vergine del Rosario, e a Onofrio Avellino, ad oggi sotto la protezione della Sovrintendenza dei beni culturali di Napoli.

La facciata, infine, con il suo ordine gigante di lesene ioniche binate, poste su un alto basamento, distaccandosi dal classicistico impianto dell’esempio fanzaghiano e pur utilizzando analoghi schemi compositivi, quali l’inserimento della statua della Vergine nell’ampio finestrone, mostra una maggiore conoscenza ed aderenza ai temi, che si andavano dibattendo in quegli anni da parte della nuova generazione di architetti.Molto probabilmente però, nella redazione del progetto, Arcangelo fu fortemente influenzato dal figlio Marcello, più incline del padre a recepire le istanze innovatrici degli architetti settecenteschi.

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Questo articolo fa parte della rubrica sulle Chiese di Napoli .”Napoli, la città delle 500 cupole”.


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