Toccanti storie di morti premature a Santi Severino e Sossio


Ippolita De Monti aveva una naturale predisposizione per l’amministrazione e la contabilità. Gestiva con appassionata cura il feudo di Saponara (in Basilicata) del marito Ugo Sanseverino, che sposò nel 1500 circa. Ippolita non amava particolarmente il consorte con cui litigava continuamente. Adorava invece i figli Giacomo, Ascanio, Sigismondo, Beatrice e Aurelia.

Girolamo, fratello di Ugo, aiutato dalla moglie Sancia Dentice, fece avvelenare i tre figli maschi di Ippolita, per carpirne l’eredità. Ippolita, distrutta dal dolore e desiderosa di vendetta, chiese alla giustizia di torturare Girolamo per il suo crimine. Tuttavia, per mancanza di prove, i due assassini ebbero solo pochi anni di carcere. Ippolita, amareggiata, delusa e con lo sdegno nel cuore iniziò ad odiare tutta la famiglia dei Sanseverino e, lasciando il marito tra i suoi giochi di potere, si ritirò nel monastero di San Gaudioso. Ugo da Saponara inviava alla consorte molte lettere nelle quali la pregava di tornare da lui, presso il suo feudo. Per tutta risposta lei chiedeva solo la separazione e gli alimenti.
Un po’ per amarezza e un po’ per orgoglio, Ippolita nel 1539 chiama l’artista destinato a dare vita alla scuola di scultura rinascimentale nel Meridione: Giovanni Merliano da Nola. A lui affida l’incarico di realizzare tre sepolcri per i figli e per se stessa nella cappella acquistata nella chiesa dei Santi Severino e Sossio. Una memoria della nobildonna descrive così la sua cappella: “li sepolcri de miei benedetti figli e mio e lo tabernacolo con l’arco de marmore e le finestre de marmore”.

Sepolcro madre, Santi Severino e Sossio chiesa

Nulla nella cappella Sanseverino lascia intendere un sentimento religioso, ma emerge la voglia dolorosa di ricordare l’avvelenamento dei tre figli che Giovanni da Nola rappresenta giovani, seduti e con un libro tra le mani. Più che defunti, i tre sembrano intrattenere un muto ed eterno dialogo.

Ecco, a te, cui la sorte impedì di donarti a noi, ahimè, un sepolcro funesto e tristi parole offriamo, allorché la morte, con una scomparsa prematura, ti rapì. Oh figlio del padre, oh amore della madre, oh sommo diletto.

Così recita l’epitaffio inciso sul monumento funebre di Andrea Bonifacio, un fanciullo morto a soli sei anni. I genitori chiamarono un poeta e uno scultore per onorare la sua memoria, per scolpire in eterno il loro dolore, per trasformare un canto funebre in duro marmo. L’autore dell’epitaffio fu l’umanista e poeta Jacopo Sannazzaro, autore dell’Arcadia. Ad eseguire l’opera fu uno scultore amato dall’imperatore Carlo V: lo spagnolo Bartolomé Ordoñez, colui che ci lasciò un brano scultoreo di grande qualità destinato a diventare un modello per tutti gli scultori napoletani del Cinquecento.

Santi Severino e Sossio, interno

Il fanciullo Andrea, sorretto da due puttini piangenti, giace senza vita all’interno di un sepolcro che ricorda più uno scrigno. Il monumento di Ordoñez, eseguito tra il 1518-19, tradisce tutta la sua formazione, avvenuta attraverso l’attento studio di tutta la scultura rinascimentale. Basti soffermarsi sul bassorilievo appena sopra l’epitaffio per confermare quello che già molti studiosi hanno riconosciuto come una interpretazione personalissima della scultura di Donatello e di Michelangelo.

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Foto di Francesca Perna


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