3 maggio 2014, sparano a Ciro Esposito e il Napoli vince la Coppa Italia

Ciro Esposito


3 maggio 2014, lo Stadio Olimpico è pronto ad ospitare la finale di Coppa Italia fra Fiorentina e Napoli, Roma è blindata per tenere a bada le tifoserie. Qualche ora prima dell’inizio della partita un corteo di tifosi napoletani percorre viale di Tor di Quinto diretto verso lo stadio. La polizia li scorta per evitare problemi, ma i tifosi non sembrano agitati: cantano cori, sventolano già le bandiere azzurre, esibiscono i colori della loro passione. Fra di loro c’è Ciro Esposito.

Ciro è nato a Napoli il 23 novembre del 1982 da Giovanni, aiuto infermiere in una clinica di San Sebastiano al Vesuvio, ed Antonella Leardi. Ha sempre vissuto a Scampia, un quartiere difficile, un quartiere dove la speranza bisogna crearsela. Ciro non cedette mai alla delinquenza, nonostante le difficoltà economiche della famiglia, ma si rimboccò le maniche e si diede da fare per cambiare la sua vita e quella del suo quartiere.

Generoso e solare lavorava in un autolavaggio insieme ai fratelli Pasquale e Michele, un’attività familiare nata grazie agli sforzi del padre. Nonostante la fatica trovava sempre il tempo per aiutare i volontari dell’associazione “Pollici Verdi” di Scampia nel curare il Parco Corto Maltese e far crescere un po’ di verde fra palazzi di amianto e cemento. Sognava un quartiere migliore e sognava di poter creare una famiglia con la sua Simona, commessa in un negozio di abbigliamento.

Ciro percorre viale Tor di Quinto e non pensa a Simona, ma al secondo amore della sua vita, freme per il Napoli che ha tifato da quando ha memoria, spera di poter vedere Hamsik sollevare la coppa. Mentre lui spera, però, qualcuno spara. Un manipolo di tifosi romanisti si avvicina, partono le offese e qualcuno apre il fuoco. Sette colpi, tre ultrà napoletani finiscono a terra e fra di loro c’è Ciro, ferito ad un polmone. Viene portato d’urgenza all’Ospedale Gemelli di Roma, ma le sue condizioni appaiono da subito gravissime.

Intanto, all’Olimpico la partita sta per cominciare, ma i tifosi napoletani si ribellano: circola la notizia che un napoletano sia morto e, per rispetto, vogliono annullare il match. La trattativa fra il capo ultrà Gennaro De Tommaso, noto come Genny ‘a Carogna, la polizia ed il capitano Hamsik passerà alla storia come una delle pagine più brutte del calcio italiano: un evento importante sospeso per aspettare il consenso di un personaggio come Genny, arrestato mesi dopo per spaccio ed associazione a delinquere.

La partita riprende, gli azzurri trionfano con un 3-1, ma intanto Ciro ha iniziato un lungo match fra la vita e la morte. L’agonia del giovane napoletano durerà 53 giorni per poi spegnersi il 25 giugno del 2014: la sua salma verrà portata a Scampia per i funerali due giorni dopo. Per quasi due mesi persino la sua innocenza verrà messa in discussione: qualcuno scriverà che era armato, qualcun altro che aveva provocato, altri che, semplicisticamente, “è di Scampia, quindi sicuramente un delinquente”. Fortunatamente, nessuna di queste ipotesi verrà confermata dalle indagini.

Secondo gli investigatori ed i giudici a sparare a Ciro fu tale Daniele De Santis, detto Gastone, un tifoso romanista militante nell’estremismo di destra. Il 24 maggio del 2016 è stato condannato in primo grado a 26 anni di carcere per omicidio. Intanto Antonella Leardi ha professato sin da subito pace per le tifoserie in memoria di suo figlio, ha raccontato gli ultimi giorni di Ciro. La memoria del giovane napoletano rivive nel parco di Scampia dedicato a lui, nel dolore di chi l’ha perso e nel cuore di tutti i tifosi.

Ciro Esposito, però, non è solo “l’ennesimo caso di violenza fra tifoserie”: la sua tragica epopea è il marcio sotto al tappeto del calcio italiano. A uccidere un ragazzo di 31 anni non è stato solo la pistola di De Santis, ma la degenerazione che ha trasformato uno sport bellissimo in una guerra fra fazioni. Il calcio è quello che Ciro voleva vedere quella sera, la tifoseria è il coro che cantava quel tragico pomeriggio. Per altri, invece, lo sport è solo un modo per sfogare rabbia, per sentirsi importanti, per far parte di un branco, per camuffare la violenza spacciandola per “patriottismo” ed attaccamento alla maglia.

“CIRO VIVE!” si legge su muri e striscioni, ma Ciro non vive sugli spalti controllati dal Genny ‘a Carogna di turno, non vive in chi in suo nome aggredisce un romanista, non vive in società che su questo marciume ci lucrano. Lì Ciro è morto e morirà sempre. Vivrà, invece, in una partita senza polemiche, in un tifo pulito e gioioso, su uno spalto in cui avrebbe potuto portare senza preoccupazioni la famiglia che sognava.


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