L’ex presidente del Parco Nazionale: “LSU e migranti, ecco come fare prevenzione sul Vesuvio”


Una settimana ininterrotta di roghi, fiamme arrivate a ridosso delle abitazioni, focolai appiccati sistematicamente che lasciano supporre un preciso disegno criminale: gli incendi boschivi sono un’emergenza che si ripete ogni estate ma che stavolta appare più grave e pericolosa che mai, ancora in piena evoluzione.

Il millenario ecosistema vesuviano prostrato, cittadini in fuga, istituzioni lontane, un inferno di terra contrastato dalle sole forze di coraggiosi volontari e di un corpo ambientale smembrato da una scellerata politica nazionale, che ha mal ripartito fondi e competenze gettando i comuni vesuviani in uno status di raro pericolo. Confondersi, complice la velocità del web che rende virali numerose notizie, è più facile che mai.

Il professor Ugo Leone, ex presidente del Parco Nazionale del Vesuvio e docente a riposo di politica e tutela ambientale dell’Università Federico II di Napoli, ha messo a nostra disposizione la sua esperienza decennale alle falde del Vesuvio e la sua solida preparazione accademica aiutandoci a fare luce sui molti aspetti dell’emergenza incendi, su responsabilità, strategie e conseguenze.
Ecco il suo parere, in esclusiva per noi.

Professore, lei è stato per anni la massima autorità del parco. Gli incendi boschivi sono ormai una consuetudine che si ripete ogni anno e le ipotesi sulle ragioni che muovono i responsabili sono tante e tutte al vaglio degli inquirenti: dal coinvolgimento della criminalità organizzata all’abusivismo e alla speculazione edilizia, complici anche recenti controlli che hanno accertato un discreto numero di demolizioni nell’area. Anche durante la sua presidenza si verificò un’emergenza roghi. Qual è la sua idea? Perché si dà sistematicamente fuoco al Vesuvio?

«Sono stato alla presidenza del Parco per complessivi dieci anni. I primi due (1995-1996) quando il Parco era stato appena istituito, i restanti otto dal 2008 al 2016. Sono stati spesso anni di incendi estivi, ma non tali da consentire di parlare di “emergenza roghi”. Comunque niente di minimamente assimilabile a quello che sta succedendo in questo drammatico mese di luglio.

Non me ne faccio certo un motivo di vanto. Dico che sono stato fortunato. Tranne in un caso nel quale la fortuna non c’entra. È stato quando durante il primo biennio –come ho sempre detto e scritto ogni qual volta sono stato invitato a parlarne – consapevole della importanza della prevenzione come unica arma sicura per evitare gli incendi, organizzammo quanto necessario per dare concretezza a questo principio. Era l’estate del 1996; al Parco erano stati appena mandati 182 LSU (Lavoratori Socialmente Uitili) e in collaborazione con Legambiente li organizzammo in squadre di avvistamento e di pulizia del sottobosco. Il risultato fa parte delle cronache di quell’anno: niente incendi.

Ma perché gli incendi? La domanda difficilmente trova risposte convincenti. A mio parere certamente non si incendia il Vesuvio per costruirvi, poi, negli spazi così ottenuti. Lo vieta la legge che esclude questa pratica per almeno 15 anni. Ma nel caso del Parco la cosa è ancora più impossibile trattandosi di un’area protetta. Senza assolutamente trascurare l’obbligo di un costruire in aree classificate dalla Protezione civile come zona rossa per il rischio vulcanico. Rischio, tanto per essere assolutamente chiari, che non risente per nulla degli incendi. Nemmeno di quelli gravissimi del luglio 2017».

L’incendio ha coinvolto anche il Parco. Sorveglianza e videosorveglianza non sono bastate a difendere questa realtà così pregevole del nostro territorio dall’attacco incendiario. Quali sono le responsabilità e le eventuali procedure che organizzerà l’Ente Parco? Quanto ci vorrà perché torni a splendere?

«Sorveglianza e videosorveglianza – cioè il presidio del territorio- sono strumenti di fondamentale importanza per la prevenzione di cui dicevo. Se ricordo bene, sono molte le videocamere disseminate nell’area. Ma chi e quanti stanno quotidianamente alla loro osservazione? Occorrono molte persone: molte più di quante – peraltro con altri compiti – ne dispongano il Parco e l’ex Corpo forestale dello Stato. Perciò quando ne ho scritto in questi giorni ho auspicato che la sorveglianza e il presidio del territorio con le finalità della prevenzione vengano affidate, da aprile ad ottobre, a moltissime persone prive di lavoro (LSU, migranti…) affidando loro una specie di “lavoro stagionale” come si fa con i raccoglitori di frutta e verdura. Per ignoranza e correttezza non posso dire che cosa il Parco si propone di fare. Certamente, però, il tempo necessario è molto».

In questi pochi giorni si è già incendiato l’equivalente di tutto il 2016. Quali principali danni ha riportato il millenario ecosistema del Vesuvio? Sono irreversibili?

«Certamente l’ecosistema vesuviano coinvolto nei roghi ha subito danni se non  irreversibili  di lungo recupero dello stato originario dei luoghi. E non solo a causa del fuoco e della distruzione di bosco e sottobosco, ma anche per lo sversamento dal cielo di enormi quantità di acqua salata perché, come mi ha scritto Giorgio Nebbia, “Ci vorranno anni di piogge – se verranno – per abbassare la salinità dei suoli”».

L’esiguità di uomini e mezzi, la mancata convenzione regionale, la dispersione delle competenze e lo sgretolamento del corpo forestale sono tutti fattori che hanno aggravato l’emergenza rendendo più complesso sedare gli incendi. Domati di giorno, riprendono di notte, alimentati dal vento. Che cosa accade esattamente al terreno perché più focolai ricomincino ad ardere contemporaneamente?

«Della scarsa disponibilità di uomini e mezzi ho detto. Aggiungo che il terreno non ha particolari colpe. Anzi non ne ha affatto anche se la lunga mancanza di piogge lo ha reso più agevolmente incendiabile nella vegetazione e più facilmente aggredibile da quei delinquenti pronti ad intervenire appena le fiamme sono state spente»

Come si dovrà procedere per ripristinare l’equilibrio una volta sedate definitivamente le fiamme?

«La risposta che danno le amministrazioni coinvolte è che si provvederà a rimboschire. È auspicabile che questo accada, ma la cosa non si potrà realizzare in tempi brevi. Il che significa che bisognerà anche porre la massima attenzione alle aree indebolite dal presidio arboreo e, di conseguenza, più soggette al rischio di frane e smottamenti».

Quali danni alla salute di uomini e animali ne derivano?

«La risposta spetta a medici e veterinari. Io posso solo dire che danni all’apparato respiratorio, cardiologico e gastroenterico sono abbastanza strettamente collegabili con l’immissione nella respirazione dei prodotti volatili della combustione. Per gli animali certamente la fauna selvatica sarà stata non poco danneggiata».

Priva del supporto nazionale, difesa quasi esclusivamente da caschi rossi e volontari, l’area vesuviana appare come l’ennesima Terra dei Fuochi che nessuno sa aiutare. Quali inerzie ritiene ci siano state a livello regionale? Perché non è stato subito dichiarato lo status di emergenza?

«Il problema non si risolve dichiarando a luglio lo stato di emergenza, ma provvedendo mesi prima perché un evento come gli incendi, di assoluta prevedibilità nei tempi e nei luoghi, sia affrontato con le difese capaci di non farlo diventare un disastro».

Dopo le fiamme, si prevede emergenza cenere, che la morfologia stessa del territorio vesuviano, ricca di alvei disseccati, farà scendere a valle e ed emergenza frane. Esiste un piano per fronteggiarle?

«Che io sappia non esiste».

C’è qualcosa che i cittadini nel loro piccolo possono fare? E cosa è auspicabile invece dalle istituzioni?

«Delle istituzioni ho detto e ripetuto. I cittadini possono evitare che il fuoco nasca e si espanda per quel poco che dipende da comportamenti colposi e non dolosi. Ma poiché i cittadini sono i maggiori custodi del territorio, la loro vigilanza e comunicazione del fuoco una volta avvistato consentirebbe di intervenire sull’incendio molto più agevolmente per essere spento e non solo circoscritto».

 

 


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