Il medico Emilia Polimeno: “Vi racconto le mie missioni umanitarie in Africa”


La passione per il proprio lavoro, una professione vissuta come una missione, un’esperienza di vita. È questo il filo conduttore di questa intervista. Si dice che le donne siano il motore del mondo, e sicuramente la protagonista di questa storia ne è una testimonianza. Lei è la dottoressa Emilia Polimeno, una napoletana originaria di Torre Annunziata, specializzata in chirurgia toracica, con un impiego al Cardarelli di Napoli. La dottoressa Polimeno però è anche una dei tanti medici italiani volontari in Africa.

Arriva dal suo turno in ospedale, prendiamo un caffè in un bar della città oplontina e cominciamo una chiacchierata come se ci conoscessimo da una vita. La prima domanda può sembrare banale ma fondamentale per conoscere il perché della sua scelta di essere medico.

Emilia perché hai scelto di essere un medico? E perché la scelta di esercitare la tua professione in Africa?
Essere un medico nasce dal fatto che sono stata figlia di un paziente. Vengo da un lungo percorso di mio padre che si è ammalato molto giovane, io ero nata da poco. Io e mio fratello eravamo molto piccoli. Ha avuto un lunghissimo calvario, per poi morire a 50 anni. Era molto giovane. Io sono sempre stata quella che sognava di guarire il papà, un po’ come tutte le bambine. Purtroppo non sono riuscita a salvare mio padre, perché è morto due mesi prima che io mi laureassi. Quindi il mio sogno è in parte svanito. Mi sono laureata prestissimo, ho sempre solo studiato. A 24 anni mi laureo con 110 e Lode, entro in una specializzazione importante a Napoli. Mi sono specializzata a 28 anni in chirurgia toracica. È stata un’escalation di studio e di lavoro. Da qui sono andata a Padova al centro trapianti di polmone. Per poi andare a Milano presso un reparto di oncologia. Poi vinco il concorso a Napoli nell’attesa che mi chiamassero decisi di fare delle ricerche per andare come volontaria in missione umanitaria. E così sono partita. Partire per aiutare il prossimo, è quello che poi alla fine desidera ogni medico. L’obiettivo è quello.

Il mio più grande desiderio era quello. Appena mi sono fermata, ho fatto prima un viaggio con una collega in Kenia, per prendere contatti presso un ospedale. Innamoratissima tornai qui che non riuscivo a stare ferma. Iniziai a contattare varie strutture, in Kenia all’epoca c’erano attentati terroristici, quindi non era proprio il posto dove andare. Contattai varie associazioni, tra cui una di Castellammare di Stabia, che opera in Burkina Faso. Sono partita con loro subito. C’era questo ambulatorio dove avrei potuto dare il mio aiuto. Comunque in Africa devi avere un appoggio, altrimenti non puoi esercitare come medico, non è che vai di tuo, devi avere le autorizzazioni dall’ordine dei medici africano. Contattai l’associazione, mi fecero tutti i documentati e andai in questo ambulatorio che avevano costruito in Burkina Faso.

Quanto tempo sei rimasta in Burkina Faso?
Ci sono stata due mesi, un’esperienza bellissima. Il Burkina Faso è una delle aree più povere. Uno stile di vita bassissimo, una media della vita molto bassa. Era molto difficile operare, perché lì più di fare ambulatorio non puoi fare. L’ospedale è praticamente un pollaio, negli ospedali di quei paesi stanno veramente i polli. Qualche piccolo reparto di maternità, poi non c’è molto altro. Le sale operatorie sono chiuse. La possibilità di malattie infettive è alta, lì le persone muoiono in casa, non vanno in ospedale. Ho fatto questa bellissima e difficile esperienza per diversi anni. Per 4 anni sono tornata sempre in quei posti. Gestivo l’ambulatorio, facevo quel poco di micro-chirurgia, curavo persone che avevano avuto incidenti, ferite mai curate nel modo giusto, io le aprivo, le ripulivo e le richiudevo. Quello che non mi piaceva è che il mio lavoro lì era molto limitato. Anche se il popolo più bello che io abbia conosciuto è quello del Burkina Faso. sono trascorsi due anni dall’ultima volta che sono stata, perché poi sono rimasta incinta, e tra la gravidanza ed il primo anno del bambino, non sono più andata.

Come hai comunicato ai tuoi familiari la tua intenzione di partire per l’Africa?
Mia madre sapeva che quello era il mio sogno, sapevano che sarei partita appena avrei avuto la possibilità. Mamma era contenta, mio fratello invece abbastanza timoroso per la situazione politica del posto.

Hai sicuramente esercitato in condizioni critiche, quali sono le condizioni in quelle terre?
Si! In questi luoghi non c’è nemmeno la corrente elettrica, alle 4 del pomeriggio non c’è più luce. C’erano le batterie che andavano a benzina per operare. Praticamente servivano solo per accendere la luce. Ti limitavi a fare quello che potevi. Tante persone di notte venivano a partorire dove io dormivo. Venivano queste donne che sapevano che c’era un medico nel villaggio e quindi venivano da me. Praticamente partorivano nel mio letto, c’era sangue dappertutto. Persone ferite venivano di giorno, di notte. Io con delle torce che avevo per fare luce cercavo di suturarle. È stata un’esperienza essenziale, molto bella. Addirittura in Burkina Faso ci sono problemi di comunicazione, avevamo un africano che parlava pochissimo italiano e inglese. Ma più delle volte ti trovavi con queste persone dei villaggi che sono analfabeti e quindi comunicare con loro è molto difficile.

Un’esperienza che non dimenticherai mai?
Non dimenticherò mai quella volta che in ambulatorio venne una donna, mi portò un neonato che mollò lì e scappò via. Io per giorni non sapevo chi fosse quella donna, perché venivano anche da altri villaggi lontani chilometri. Per arrivare in ambulatorio ci mettevano anche un giorno intero, perché poi si diffondeva la notizia che c’era un medico. Per giorni non sono riuscita a trovare la mamma di questo neonato, poi tramite il re del villaggio, arrivammo a questo donna e praticamente lei aveva avuto già 7 figli che erano tutti morti, perché non poteva allattare, quindi nascevano e morivano perché denutriti. Quindi lei mi lasciò il bambino per dargli sostentamento, io comprai il latte vaccino, le spiegai come doveva essere dato al bambino. Mi dissero di non dare tutta la scorta di latte di 3/4 mesi alla madre perché, per necessità avrebbe venduto il latte. A quel punto mi consigliarono di darlo al re del villaggio che pian piano distribuiva il latte ai bambini.

Foto gentilmente concessa dalla Dott.ssa Emilia Polimeno

Cosa metti nella tua valigia quando parti?
Io porto due valigie. In una metto solo farmaci, nell’altra metto biscotti, caramelle, cose che poi possono resistere a temperature che arrivano anche a 40 gradi. Di mio porto solo due cambi.

Perché lo fai?
È una vocazione! A me piace, ora aspetto che mio figlio finisca le vaccinazioni poi riparto e questa volta andrò con lui.

Qual’è stato il momento più difficile?
L’esperienza in Burundi! Contattai da sola un medico italiano in pensione di Castellammare di Stabia, è un chirurgo che vive in Burundi. Trovai degli articoli su internet, contattai e partii poco dopo. Sono stata un mese in ospedale da lui. Quella in Burundi è stata una delle esperienze più forti della mia vita, perché lì c’era la guerra con il Ruanda. C’erano le torture. Io avevo la scorta armata. Mi venivano a prendere, mi spostavano per i vari ospedali. Molte volte non potevo uscire dall’ospedale, ero obbligata a stare lì. Ho la passione per la fotografia mi piaceva andare in giro a fare foto, potevo solo muovermi nella zona dell’ospedale ma sempre scortata. Spesso stavo chiusa in sala operatoria, mancava la corrente ero ferma in sala per ore ad aspettare che tornasse la corrente. Non ci ritornerò in Burundi per via delle torture. Le donne venivano messe in dei recipienti con l’acido.

Di cosa vai fiera?
Un bambino venne in ambulatorio con la gamba aperta, cadde da un albero. Io pulii la ferita la suturai, loro non avevano nulla. Vennero in ambulatorio e mi portarono in dono una gallina. Il Bambino veniva ogni giorno, mi portava una manciata di noccioline ed un bacio. Loro hanno questo senso del dover ricambiare il favore per le prestazioni mediche ricevute. Lì chi va in ospedale paga, vedi padri che si vendono le tegole delle capanne per portare i figli in ospedale. Persone che vivono in condizioni pessime, sono denutrite sporche non ci sono antibiotici, non c’è nulla.

Un ricordo invece che ha segnato profondamente la tua esperienza?
Una persona è morta durante il post operatorio per via della mancanza di trasfusioni.

Se tuo figlio un giorno ti dicesse: “Mamma voglio andare in Africa come medico volontario”, cosa gli dirai?
Che andiamo insieme! Io mi auguro di portarlo quanto prima. Ti aiuta a ridimensionare il tutto. Non vorrei che facesse il medico per le cose brutte che si vedono facendo questa professione. Però mi farebbe piacere che facesse queste esperienze di vita.

Ai ragazzi che vorrebbero fare i medici volontari in Africa, consigli questa esperienza quindi?
Si! È un’esperienza che consiglio. Chi ci va’ una volta ci ritorna. Non è un viaggio ovviamente.

Di tutte queste esperienze, cosa ti rimane di solito che è una cosa comune in ogni singola esperienza?
Il grande entusiasmo della partenza ed il dispiacere del ritorno. Mi volevano dare una bambina in adozione, quando sono tornata lì era disidratata. Quello che mi porto dietro da ogni singola esperienza è il senso dell’essenziale. Tu lì sei essenziale, non hai orari devi imparare a fare tutto. Ho fatto nascere bambini cosa che non avevo mai fatto prima. È stato bellissimo.

Quanti medici napoletani hai incontrato nelle tue missioni?
Pochi, purtroppo il sud contribuisce ancora molto poco. Le associazioni sono per la maggior parte venete. Nei miei ultimi viaggi vado da sola non con le associazioni.

Cosa possiamo fare per aiutare queste popolazioni?
Io non voglio soldi, non li chiedo. Ci metto le mie ferie, i miei risparmi, molti vorrebbero contribuire. Io chiedo farmaci. Essendo medico ho molti amici farmacisti che mi offrono antimalarici, cose di prima necessità. Non soldi ma medicinali. Altra cosa le caramelle, perché basta veramente una caramella e quei bambini sono felici. Una volta avevo un pacchetto di biscotti mi accerchiarono circa venti bambini e distribuii a loro l’intera confezione, erano felicissimi. Due coniugi anziani amici di mia madre mi diedero un pacco di siringhe che avevano in casa. Questo per dirti come le persone vogliono anche con poco contribuire alla causa. E questo è veramente importante.


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