Sull’atlante della memoria vesuviana: Palazzo Capracotta


Già creazione di epoca spagnola e seicentesca, poi sede municipale durante l’epoca borbonica, condominio anonimo per privati cittadini oltre il secondo millennio, Palazzo Capracotta ad Ercolano è celebre tra le Ville Vesuviane del Miglio d’oro dei giorni nostri per le sue forme particolari, per la sua pianta ormai irriconoscibile, lo stato pessimo di conservazione, per il vuoto che ospita il nome, o a i nomi, che insieme al Principe di Capracotta l’hanno stabilito.

Le pieghe di gusto barocco assumono la fisionomia di un “libro aperto”, e come un libro aperto Palazzo Capracotta ci parla con una sincerità e uno spessore di testimonianza che forse non solo i corpi che sanguinano, le vive piaghe delle carni mistiche, possiedono.

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Soprattutto la facciata ad angolo ottuso, le finestre decorate con stucchi arricciati, ringhiere in ferro battuto curvilinei e a sbuffo restituiscono una metafora architettonica molto produttiva per le nostre indagini. Come pagine vissute, ricche di sottolineature, umide perché intrise di inchiostro, angoli piegati, tracce di memoria sgualcita, citazioni, indicazioni, elaborazioni possibili di un passato scritto per chi ormai non sa più leggere, Palazzo Capracotta resiste a chi ha perso l’estetica, la sensibilità, attenta del lettore esercitato. Il Palazzo Capracotta è il “Nodo Borromeo” inaspettato tra l’architettura teatrale dei drappi e della rappresentazione barocca (e per certi versi effimera) e l’architettura dell’eternità. I tre piani del complesso soffrono come nell’architettura, come nella letteratura romanzata, contemporanea di depauperazioni, citazioni dall’antico non più evidenti, sventramenti del primo piano e del solaio che rovinano lo splendore che lo caratterizzava un tempo; Palazzo Capracotta è un altro araldo della profonda inconsistenza e melanconia che attanaglia, come i nostri cuori, i nostri luoghi.

La florida e curiosa ricchezza delle attività sociali che la abitano e la circondano, lasciano sperare in un “ready made”; il mercato dell’usato, che frequenta la strada antistante l’edificio, porta a pensare che un quartiere d’origine medievale come questo possa essere la superficie catalizzante per le, comunque attuali e resistenti, formule di pathos, immagini dialettiche, capaci di lavorare il passato anacronisticamente, elaborare nuove soluzioni architettoniche e urbanistiche per il passato e per il futuro.

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