La “colonna infame”: la storia della punizione più vergognosa di Napoli


I miti e le leggende riguardanti Napoli sono davvero innumerevoli. Quando poi questi racconti fantastici s’intrecciano con eventi storici realmente accaduti, il sostrato culturale del nostro Mezzogiorno non può far altro che elevarsi, accrescendo il proprio prestigio.

Castel Capuano, che è anche detto Palazzo della Vicaria visto che nel 1540 vi si trasferirono il Sacro Regio Collegio, la Zecca, la Bagliva e la Regia Camera della Sommaria, fu teatro di detenzione e sofferenza. Ivi confluivano delinquenti, criminali e condannati a morte.

Fu don Pedro de Toledo, viceré di Napoli dal 1532 al 1553, a voler concentrare in un unico sito tutti i rami della magistratura napoletana. Castel Capuano quindi, non era solo il luogo dove i malviventi scontavano la loro detenzione, ma fu anche la sede di orribili torture ed esecuzioni capitali, come quella di Giuditta Guastamacchia.

Davanti alla porta principale del castello era collocata una colonna bianca di marmo chiamata, dai contemporanei, la “colonna infame della vicaria”, ove veniva esplicata un’usanza molto particolare. Quando un uomo non era in grado di onorare un debito, egli veniva costretto a salire sulla cima di questa colonna, abbassare i calzoni, e mostrare le natiche alla folla divertita.

L’umiliazione, però, non poteva ancora ritenersi conclusa. Subito dopo essersi denudato, infatti, il malcapitato doveva pronunciare l’espressione: “Cedo bonis” che letteralmente significa “svendo tutti i miei beni”. Tale pratica, oltre a ridicolizzare lo sciagurato, era importante per convincere i creditori del fatto che il debitore si sarebbe impegnato attivamente a regolare, nel più breve tempo possibile, la propria situazione.

Il tutto avveniva in uno scenario, a dir poco, macabro e surreale tra condannati che aspettavano di essere giustiziati, prigionieri in catene e teste mozzate esposte come monito per scoraggiare tutti coloro i quali avessero voluto macchiarsi con un crimine. Secondo la tradizione proprio da questa usanza dovrebbe derivare l’imprecazione tipicamente partenopea “mannaggia ‘a culonna ‘nfame”.

Fu il già citato don Pedro de Toledo a rendere meno mortificante la pratica sostituendola con una semplice, ma pur sempre significativa, esposizione a capo scoperto al cospetto dei creditori. Con l’avvento di Carlo di Borbone sul trono di Napoli la colonna venne abbattuta, ma tale provvedimento non pose fine al suo destino “infame”. La sua base venne, di fatti, utilizzata come ceppo mortuario per esibire i corpi dei condannati e di coloro che erano periti tragicamente. La colonna è adesso conservata nel Museo della Certosa di San Martino.

Fonti:
– V. C. Grimaldi, M. Franchini. “Napoli insolita e segreta”


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