“Mia madre odia tutti gli uomini”: da Scampia a Sanremo, la favola inquieta di Maldestro


È appena uscito “Mia madre odia tutti gli uomini”, nuovo lavoro discografico di Maldestro, edito da Arealive e distrubuito dalla Warner Music.

Titolo che oltre ad essere l’evocativo incipit di uno dei brani inseriti nella setlist nell’album, parliamo di “Come una canzone”, ci ricorda anche lontanamente richiami letterari e cinematografi.

Potrebbe esserci capitato di leggere il bestseller del giallista scandivo Stieg Larsson “Uomini che odiano le donne” o aver visto Pedro Almodòvar nella sua confessione “Tutto su mia madre”, e forse “intimamente” parlando è proprio qui che si avvicina il concept di questo lavoro così personale e confidenziale.

Maldestro, anima tormentata e figlio di Scampia, quel territorio tanto complicato e da amare che si lega a lui anche con cognome importante: Maldestro è, infatti, all’anagrafe Antonio Prestieri, che per chi conosce certe geografie criminali sa quanta risonanza porti un nome del genere, quando lui invece è semplicemente Antonio, sfuggito a un padre e ad un destino che poteva inevitabilmente segnarlo, salvato dalla musica, da un pianoforte e dalla madre, proprio quella che odia tutti gli uomini.

Capace con la sublime scrittura da poeta urbano dei sentimenti di riuscire a decifrare angosce e dolore anche senza doverli tramutare in rime rap, come qualunquismo vuole, per chi deve raccontare certe storie di passati feriti e habitat difficili.

Abbiamo forse imparato a conoscere Maldestro,e ad amarlo, nella sua intaccabile essenza quando arriva secondo al Festival della canzone italiana a Sanremo e più precisamente nella categoria nuove proposte: era il 2017 e il brano era “Canzone per Federica”. È seguito poi un anno intenso, un disco live, dove riesce a farsi conoscere a livello nazionale tra concerti e importanti riconoscimenti, premio critica “Mia Martini”, Premio Lunezia, Premio Jannacci e Premio Assomusica, oltre al miglior videoclip.

Così a poco più di un anno dal precedente album “I muri di Berlino” arriva un nuovo lavoro, che speriamo possa essere, anche per caratura stilistica e profondità, il disco di consacrazione di uno dei più interessanti e giovani songwriter italiani.

“Guarda un po’ che dolore mi tocca cantare” dice nella prima canzone dell’album “Il seme di Adamo”, frase emblematica dell’intero percorso di dieci tracce. Tastiamo infatti con mano il dolore fatto di un’infanzia nostalgica e piena di fotografie, di una troppo abusata concezione maschilista a difesa di certe fragilità, flashback, sensazioni di un percorso e di un lieto fine fatto di un dolore che viene riconosciuto e tramutato in felicità.

Il lavoro in studio di grande pregio è coronato da un sound designer d’eccezione come Taketo Gohara (che ha lavato tra gli altri con Vinicio Capossela, Brunori Sas, Marta Sui Tubi, Negramaro, Verderna, etc) oltre alle musiche registrate con Alessandro “Asso” Stefana, Filippo Pedol, Niccolò Fornabaio, Mauro Ottolini, James Senese etc.

Sono già disponibili su Youtube i due videoclip tratti dai primi due singoli estratti: “Spine” e “La felicità”. Maldestro è attualmente impegnato con una serie di incontri showcase in giro per l’Italia dove presenterà al pubblico il suo lavoro. Ma è previsto a breve anche l’inizio di un tour che debutterà il 19 Gennaio al Teatro Tasso di Sorrento, proseguendo il 29 al Sannazaro di Napoli e ancora Roma, Mestre e lungo il paese fino a tornare in Campania il primo Marzo ai Magazzini Fermi di Aversa.

Di seguito l’intervista rilasciataci dall’artista in occasione nella presentazione tenuta alla Feltrinelli di Napoli:

Ascoltando l’album che sicuramente è molto introspettivo ci ho ritrovato due anime: una prima parte del disco in cui fornisci un po’ le istruzioni su come maneggiare il dolore e come poi trasformarlo in una metamorfosi di felicità, nella seconda parte del disco ci vedo invece questa anima autobiografica, in cui si riscontrano veri pezzi di te, la tua infanzia, quello che hai dovuto lasciare e in generale una sensazione molto nostalgica. Pensi sia giusta come visione?

“Sicuramente bella questa visione e forse anche corretta, onestamente non ci ho pensato a questa divisone nel momento della scelta della scaletta che è stata spontanea. Una prima parte in cui mi presento, la seconda la mia parte più intima, andando a fondo e trattando argomenti più personali, non che i primi argomenti non lo siano, tutto il disco parte da un bisogno personale e di raccontarmi, mettermi a nudo, anche nella prima traccia racconto la virilità dell’uomo senza paura, ad un certo punto raccontarti diventa il tuo punto di forza.”

Mi chiedevo anche da quanto tempo ti portassi dentro questa sensazione di inquietudine che si evince dal disco, nell’essere e nell’essere uomo. Quando hai deciso di evocare queste sensazioni e farle diventare un disco?

“Le inquietudini da quando sono nato (ride), sono cose che mi sono sempre portato dentro, ieri per esempio ero a Roma per un intervista a “Radio Rock” scegliendo vinili, ospite con Riccardo Sinigallia, e parlavo della prima canzone che mi ha appassionato scegliendo poi di fare questo mestiere. Avevo dodici anni ed era “Lindbergh”di Ivano Fossati, e magari osservavo quanto già potessi essere triste (ride) a quell’età in cui magari potevo accontentarmi dei cartoni animati, questa inquietudine è stata ed è il motore della mia vita che forse mi spinge a buttare fuori e liberartene, cosa anche bella trovando la pace. In questi due anni ho maturato l’idea di fare questo album dove potessi raccontare questo stato d’animo senza nessuna paura.”

Passando invece ai due singoli che hai tirato fuori dal disco, mi incuriosiva molto il videoclip di “Spine”, sopratutto l’espediente narrativo che ci ho riscontrato, tutto il noir siciliano, da Gadda a Sciascia passando per Camilleri, come è nata l’idea?


“L’idea è nata dal regista, Zavvo Nicolosi, mi ha proposto l’idea sulle mie indicazioni, volevo proprio un video noir e in bianco e nero, che avesse una storia non didascalica ma differente dalla canzone, qualcosa di mistico, lui scrisse la sceneggiatura e me la mandò, io subito accettai perché trovavo belli i due contrasti tra la canzone e il video che è fatto davvero bene.”

Leggevo dell’incontro significativo con Taketo Gohara, che ha collaborato con tanti artisti di spessore, quanto ha influito il suo incontro sulla scrittura del tuo lavoro e se ha anche inciso a livello evocativo il fatto che sia stato anche compositore cinematografico?

“Non ha inciso il fatto il fatto che facesse anche cinema, però da un punto di vista dell’evocazione visiva la sua bravura è stata proprio quella di riuscire a capire il brano e capire chi sei tu, ci siamo visti a Milano parlando ventiquattro ore ma senza parlare di musica, li ha capito chi ero e cosa volevo tirare fuori e lui è un maestro, uno di quei produttori che migliora le canzoni e non le peggiora.”

Volevo farti anche una domanda più personale. Ci rendiamo spesso conto che la musica vive di tanti stereotipi, chi viene da un ambiente difficile deve magari dedicarsi a generi come il rap o chi viene da un ambiente più privilegiato magari diventa cantautore: tu che comunque hai avuto un’infanzia particolare e non semplice, sei uno dei migliori songwriter della scena, quanto quindi ha pesato il tuo passato?

“Sicuramente ha pesato buona parte, la tua storia ti segna inevitabilmente, nel bene e nel male, se magari avessi avuto un’infanzia diversa avrei sempre scritto ma magari facendolo in maniera diversa, parlando di un altro tipo di dolore o non sapendo cosa fosse il dolore, la mia storia di vita, il mio vissuto mi ha formato in questo modo e scrivendo così. Certo che se mi chiedessero se preferisco diventare il più famoso cantautore al mondo o essere sereno preferirei la serenità, ho canalizzato il tutto attraverso la scrittura, l’unico modo che ho per arrivare a quella felicità che ogni tanto arriva.”

Negli ultimi due anni, sono successe tante cose, dai riconoscimenti alla visibilità che sicuramente ti ha dato un’esperienza come quella di Sanremo. Come ha inciso sul tuo percorso? Qualcosa poi è cambiato?

“Sicuramente qualcosa è cambiato, prima di Sanremo erano due anni che facevo questo e nonostante i riscontri di riconoscimenti non avevo ancora alle spalle un tour. Dopo Sanremo sono arrivati anche i primi riconoscimenti di pubblico oltre quelli di critica, ha influito sì ma senza determinare la mia vita, una settimana in cui ti esponi e dove porti le tue idee e l’ho fatto senza condizionamenti, ma dura quella settimana e se non hai la tua strada e la voglia di costruire termina tutto lì.”


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