“Sei una scortum”! Le parolacce degli antichi tra le rovine di Pompei


Secondo alcuni storici sarebbero sinonimo di civiltà (avrebbero sostituito il lancio di pietre), per altri uno strumento non violento per sfogare rabbia e frustrazione. Di certo le parolacce le conoscono tutti, ma pochi forse saprebbero indicarne l’origine e la declinazione nelle antiche lingue classiche, greco e latino. Eppure, i grandi padri della nostra civiltà, capaci di raggiungere le più alte vette del pensiero filosofico e della poesia, oggi sarebbero capaci di tener testa ai più volgari tra quanti hanno il “vaffa” facile.

Non si confonda la lingua volgare (lingua del volgo, cioè del popolo, commistione dell’antico latino con le parlate dei barbari) con le parolacce. Piuttosto, cerchiamole proprio tra le più grandi penne dei Greci e dell’Impero Romano o tra i graffiti rinvenuti tra le rovine di Pompei ed Ercolano.

Sì, perché chi ha reso grande la nostra storia, è stato foriero anche di invettive e turpiloqui magistrali. Nulla di cui meravigliarsi, però, secondo l’archeologo Antonio Varone, il quale nel suo “Pompei, l’amore dipinto sui muri” prova a darne una oggettiva e lucida spiegazione: “In una società che non conobbe né il dubbio del peccato né la pruderie o la malizia di tanta letteratura moderna, l’amore diventa dimensione terrena dell’ uomo: l’osceno non esiste, o si trasfigura.

“Di certo, l’amore che traspare dalle pareti di Pompei non conosce morbosità di sorta, pur in gesti che la nostra sensibilità propenderebbe a considerare turpi; mai, come nell’età classica, l’amore ha potuto giovarsi di tutta la spiritualità terrena che è insita nella sua natura; mai come allora il sentimento si è fuso così intimamente con la carne. In nessun altro posto, come Pompei, è possibile recuperare attraverso il messaggio e il segno lasciato dagli uomini che vi vissero la cifra e il senso che un’umanità dalla spiritualità così diversa dalla nostra, eppure così identica a noi, riusciva a cogliere e a vivere”.

E che noi oggi possiamo ancora leggere. Così, ad esempio Giovenale nel Libro I delle sue “Satire” apostrofava un povero sconosciuto: «Condanni l’immoralità tu, proprio tu, che degli efebi di Socrate sei il buco più noto? Il corpo rozzo e le braccia irte di setole prometterebbero un animo fiero, ma dal tuo culo depilato, con un ghigno, il medico taglia escrescenze grosse come fichi».

Ben nota invece la donna a cui Catullo sapeva dedicare versi di sublime poesia, ma anche insulti della peggior specie: “Fetida d’una puttana, restituisci i versetti, restituiscili tutti, puttana putrefatta. Te ne freghi? Oh, che zozza, che gran troia, la più degenerata che possa esistere. Ma credo che questo non sia ancora sufficiente. Se non altro che noi la si possa far bruciare di vergogna, quella cagna dura come il ferro“.

A tal punto giunsero le scurrilità dei Romani, soprattutto nei confronti delle donne, che nel III d. C fu introdotta la Lex de adtemptata pudicitia, una legge che difendeva l’onorabilità delle mogli, delle vedove e delle vergini; e che non puniva soltanto chi insultava queste donne, ma anche chi infastidiva le matrone, cercando di possederle. Une legge, dunque, addirittura contro la violenza sessuale, oltre che contro le volgarità ad esse indirizzate.

Ma quali erano le parolacce più in voga nell’antica Napoli? Anche in questo caso ci vengono in aiuto le iscrizioni rinvenute negli Scavi archeologici di Pompei ed Ercolano. Soprattutto i muri di Pompei sono, infatti, ricchi di scritte volgari, visto che gli antichi romani erano soliti scrivere sugli intonaci dei muri all’aperto, ma anche nelle case private, nei locali pubblici, nelle scuole, nelle osterie e nei lupanari. In tutti questi luoghi tra le apostrofi più in auge certamente questi: stercus (merda), mentula (membro maschile), futuere (fottere), meretrix (prostituta) e scortum (sgualdrina).


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