L’Imbrecciata di Napoli: sede della camorra e della prostituzione nel Novecento

Ce vo' 'a ciorta pure pe ffa' 'a zoccola


L’Imbrecciata di Napoli a S. Francesco era considerata la strada più malfamata della città partenopea. Oltre a non essere affatto curata dalle autorità, era sconnessa e maleodorante ed aveva una serie di vicoli laterali che dalla trafficata zona di Porta Capuana portavano fino a strade isolate di campagna verso i confini della città.

Si trattava, dunque, di un luogo ideale per sfuggire alle pattuglie di polizia e costituiva pertanto una sede della camorra e un’area di rifugio per i latitanti. Era, inoltre, sede del mercato della prostituzione di bassa categoria.

L’Imbrecciata di Napoli: sede della camorra e della prostituzione

L’Imbrecciata di Napoli divenne oggetto di studio a inizio Novecento da parte del criminologo lombrosiano Abele De Blasio, che la descrisse come il «paese della camorra»:

L’Imbrecciata, per chi nol sappia, poteva essere considerata come un piccolo regno il cui re era il più temuto camorrista di Sezione Vicaria, che ogni settimana veniva pagato tanto dai proprietarii delle case che dalle conducenti dei postriboli, obbligandosi da parte sua di far pagare regolarmente il fitto ai primi ed aggiustare le vertenze che causalmente fossero avvenute fra le seconde.

La supplica di murare i vicoli da parte degli “abitanti onesti”: un progetto ostacolato

Nel dicembre del 1822, partì una supplica indirizzata al re da parte degli «abitanti onesti che trovansi nei pressi di S. Francesco fuori Porta Capuana», chiesero la muratura dei vicoli che comunicavano con l’Imbrecciata, a causa dei continui scandali provocati dalle prostitute e dai loro protettori. Tuttavia, nonostante l’appoggio reale, il progetto non venne messo in pratica.

Secondo De Blasio, la muratura di quei vicoli veniva ostacolata dalle autorità amministrative, che temevano possibili ritorsioni da parte dei camorristi:

nessuno dei vostri predecessori si è arbitrato di farlo, perché se quelle povere disgraziate non hanno parenti per farsi fare giustizia, vi siamo noi che abbiamo tanto di cuore e sempre pronti a versare il nostro sangue per esse e scannare quelli che contribuiranno a far fare le mura al vico S. Francesco.

L’attuazione del progetto di muratura

La svolta avvenne nel 1851, quando il re decise di far eseguire i lavori di muratura. Nel 1855 venne posto all’ingresso un robusto cancello di ferro a due battenti, che veniva chiuso durante la notte. Tuttavia, le barriere verso l’esterno erano costantemente soggette a tentativi di penetrazione, fino a quando nel Sessanta, «scoppiata la rivoluzione, le prostitute dell’Imbrecciata non se ne stettero, come suol dirsi, colle mani in cintola ed, aiutate dai loro ricottari, rimossero il cancello, abbatterono le mura costruite negli anni precedenti, e col materiale demolito presero a pietrate i poliziotti e ruppero le gelosie del carcere di S. Francesco», dirigendosi infine verso il «gran carcere della Vicaria per mettere in libertà i camorristi; ma quattro colpi di fucili, tirati in aria dal picchetto di guardia di quel carcere, furono bastevoli per fare allontanare quelle donne».

Antonio Ottieri: presenza fissa negli elenchi dei camorristi

Nelle fonti di polizia giudiziaria vengono altresì segnalate delle analoghe presenze camorriste nel campo della prostituzione. Infatti, nel corso degli anni Quaranta, lungo le strade di questo versante del quartiere Vicaria, si affermava Antonio Ottieri, macellaio indicato dalla polizia locale come «il regolo ed il capo de’ tristi e sfaccendati che si aggirano diuturnamente per i pubblici lupanari e quelle adiacenze a far da bravi in cerca di brighe e tafferugli».

Al momento, a Ottieri non veniva ancora attribuita la qualifica di «camorrista», ma, nonostante ciò, la sua presenza fu fissa negli elenchi dei camorristi della polizia borbonica e del nuovo Stato unitario.

L’arresto e l’esilio

Ottieri, fermato durante un controllo serale nel marzo del 1847 da alcuni poliziotti in borghese, venne condotto in carcere perché trovato armato. Il giovane aveva a quell’epoca già accumulato vari precedenti per aggressione, lesioni e minacce, tali che il responsabile di zona Federico Bucci considerava il suo arresto importante «per la pace di questo Quartiere», data «l’indole proterva di esso Ottieri».

Pertanto, Bucci suggeriva come misura di prevenzione, appena avesse finito di scontare la condanna penale per porto d’arma vietata, di inviarlo in esilio su un’isola: provvedimento che si stava gradualmente affermando come tra i più adatti per contrastare la criminalità di matrice camorrista.

Fonti:

Antonio Fiore, Camorra e polizia nella Napoli borbonica, 1840-1860


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