I “Treni della felicità” che salvarono i bambini del Sud

Treno della felicità


Tutti conoscono le atrocità della Seconda Guerra Mondiale. Gli eventi, i protagonisti e gli stenti di quegli anni sono raccontati da ogni libro di storia e documentario. Ma alcune storie non entrano nei libri di storia, non parlano di patrioti coraggiosi, ne di eserciti, ne di accordi politici, solo di sopravvivenza e speranza. Solo chi ha vissuto in prima persona quel conflitto ricorda che fra le macerie dei bombardamenti, mentre gli eroi festeggiavano un’Italia liberata, il popolo era ancora oppresso dalla fame. Un paese che si stava risvegliando da oppressione e dittatura non era ancora in grado di garantire il minimo per la sopravvivenza, specialmente per i più piccoli.

Il Sud Italia era ormai in ginocchio, lì i nazisti, i bombardamenti e i liberatori stessi avevano saccheggiato, distrutto e danneggiato le fonti di sostentamento, cosa che invece non era successa al Nord, dove i campi della pianura Padana erano ancora produttivi ed utilizzabili. Così, i bambini del Mezzogiorno e di altre zone non rurali d’Italia sarebbero andati incontro agli stenti se non fosse stato per la provvidenziale iniziativa solidale di una donna.  La milanese Teresa Noce, battagliera dirigente comunista e partigiana da poco rientrata dal campo di Ravensbrük, chiese ai compagni di Reggio Emilia, realtà prevalentemente agricola e quindi con maggiori risorse alimentari rispetto a Milano, di ospitare in quei mesi alcuni bambini. La risposta dei contadini fu accolta con un incredibile zelo, al punto che furono proprio loro a chiedere di estendere l’iniziativa ai bambini del Sud. Così, dal ’45 al ’52, almeno 70.000 bambini vennero mandati da soli, senza i genitori, su dei treni, chiamati “treni della felicità”, da famiglie in grado di nutrirli e farli sopravvivere. Le famiglie ospitanti non erano ricche, anzi, erano anche loro profondamente segnate dagli stenti, ma, forse, dopo anni di morte e soprusi tutti sentivano quanto fosse importante la vita umana e tutti riuscivano a sacrificare l’egoismo per la solidarietà.

Quei bambini erano spaesati, soli in un mondo di estranei, troppo piccoli per capire, ma sopravvissero grazie al cuore di quei poveri sconosciuti e, quando l’economia si ristabilì, tornarono dalle loro famiglie ricordando con affetto le persone che si erano prese cura di loro in quegli anni.

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Questa realtà è stata scoperta da Alessandro Piva e Giovanni Rinaldi quasi per caso e i due hanno pensato bene di renderla pubblica al mondo con un libro, “I treni della felicità”, appunto, dove hanno raccolto le testimonianze di “ex bambini” salvati da quei treni e di chi accolse quei poveri disperati come fratelli e sorelle nella propria casa. Il progetto è poi diventato un documentario curato dallo stesso Piva nel 2011 col titolo di “Pasta Nera”. Dalle testimonianze traspare lo stupore di quei bambini verso le cose più semplici, cose che noi riteniamo scontate e ovvie: la meraviglia di vedere il mare per la prima volta, la felicità di trovare sempre un piatto caldo, la gioia di vivere un’infanzia normale, forse non agiata, ma con la serenità e la speranza che solo in quell’età si può avere.

E’ una storia piccola quella dei “treni della felicità”, una storia, forse, poco rilevante per gli studiosi, ma una storia che ha salvato il sorriso di 70.000 bambini dalle macerie lasciate dai “grandi”.


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