Arche aragonesi, le mummie dei sovrani spagnoli in San Domenico Maggiore


Simbolo del potere spirituale ma anche di quello temporale, la Basilica di San Domenico Maggiore custodisce da secoli uno dei tesori più rari e preziosi al mondo: le arche aragonesi, ovvero le tombe e i resti dei regnanti della famiglia spagnola aragonese. Scrigno reale è, in particolare, la sacrestia del monumentale edificio.

Affrescata dall’artista Francesco Solimena nel 1707 col dipinto “Trionfo della Fede sull’eresia per opera dei domenicani”, e percorsa lungo il perimetro, in basso, da armadi in legno di elegante fattura, realizzati da Giovan Battista Nauclerio; essa è frutto di un’opera di ammodernamento settecentesca, dopo la realizzazione dell’intera Basilica per volere di Carlo II d’Angiò, avvenuta tra il 1283 e il 1324.

Un biglietto e una guida sono il giusto obolo da pagare per ammirare siffatte bellezze, ma soprattutto le cosiddette “arche aragonesi“, ovvero le tombe di ben dieci sovrani della casa d’Aragona e di altri influenti personaggi politici dell’epoca. Esse si trovano sopra un ballatoio pensile – “passetto dei morti” -, dal quale si affacciano quarantacinque casse lignee di varia dimensione (tutte ricoperte da sete e broccati di colore diverso) e disposte su due file sovrapposte.

Oggi non si può accedere direttamente alle “arche aragonesi”. Un tempo, però, tramite una stretta scaletta di accesso, era possibile persino guardare all’interno dei sarcofagi, che non avevano serratura e si poteva sollevarne il coperchio: i corpi erano adagiati su letti di resina, foglie e argilla; erano ricoperti da una patina verde, come di muffa o di licheni affioranti.

Tra i vari sovrani custoditi all’interno delle “arche aragonesi” Ferrante II, la regina Giovanna IV, Maria d’Aragona, Isabella d’Aragona, del giovane re Ferrante II. Ma vi sono anche alti dignitari di corte, quali Pietro d’Avalos, Luigi Carafa, principe di Stigliano, Antonello Petrucci, Ferdinando Orsini, e Ferrante d’Aragona, duca di Montalto. Alcuni dei bauli hanno accanto il ritratto del personaggio che vi fu deposto, altri recano una targhetta con il nome, altri sono anonimi. Nel baule funerario di Alfonso I di Napoli (ovvero Alfonso V il Magnanimo, capostipite della dinastia partenopea) non c’è il suo corpo: esso fu traslato nel 1666 nel monastero spagnolo di S. Maria di Poblet in Catalogna.

In realtà lo stesso pantheon degli aragonesi (sul trono del Regno di Napoli dal 1442 fino al 1501) non è sempre stata la sagrestia della Basilica di San Domenico Maggiore. Pare, infatti, che in origine le tombe fossero sparse per l’edificio. Fu poi il re Filippo II di Spagna a farle riordinare nel coro, dove si trovavano fino al 1590. Da lì, solo nel 1594 furono spostate in Sacrestia per evitare i frequentissimi incendi a cui la chiesa era esposta.

Nei bauli che furono aperti sono stati trovati corpi mummificati in eccezionali condizioni di conservazione. Ciò ha permesso, tra le altre cose, di studiare anche lo stile di vita e le malattie dell’epoca: Maria d’Aragona era affetta da malattia venerea, il bimbo di due anni da vaiolo, Ferdinando Orsini da un tumore al cervello e Ferrante d’Aragona il giovane da cirrosi. Gli studi hanno messo in luce che Isabella d’Aragona aveva i denti abrasi da uno strumento di ferro cilindrico. Antonello Petrucci, segretario di Ferrante, presentava una calcolosi della colecisti.


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