Suzette Tartarone: storia di una deportazione partenopea


In un giorno particolare come questo il verbo “ricordare” sembra assumere un significato diverso, più intenso, diremmo quasi un imperativo categorico a cui nessuno di noi può sottrarsi, soprattutto gli organi di informazione, ed è questo il motivo che ci ha spinto a raccontare (nel limite del possibile) la storia di Suzette Tartarone, ragazza per metà napoletana e per l’altra metà francese deportata negli anni ’40 a Pollenza.

Di Suzette non si conosce molto e purtroppo nemmeno della sua storia. La testimonianza della sua esperienza di deportazione ci è arrivata grazie allo zelo e alla passione di Gaetani Bonelli che oramai da anni raccoglie tutte le memorie storiche sulla nostra città.

Ed è proprio Bonelli che ha portato alla luce quel che resta di una lettera sbiadita inviata ad “Alfredo Tartarone, presso famiglia Cirino, via Roma 109”, una lettera dolce e commuovente scritta a suo padre da una giovane colpevole esclusivamente di essere figlia di una donna ebrea, probabilmente di nazionalità francese.

Suzette scrive a suo padre da Villa Lauri, ex villa patrizia trasformata in campo di concentramento pronto ad accogliere soprattutto donne straniere. Solo qualche anno fa di Suzette e della sua deportazione non si conosceva praticamente nulla, fino al momento del ritrovamento di una lettera indirizzata (appunto) a suo padre, lettera che testimonia il passaggio di una vita spezzata dalla follia di un criminale di guerra.

La ragazza inizia così la sua missiva: “Caro Babbo, l’anno nuovo cominciato in cattività mi sembra di cattivo augurio e mi sento molto avvilita, molto stanca di questa vita infamante” e secondo le prime ricostruzioni sembra che il suo futuro si sia rivelato ancora più crudele ed infamante.

Con molta probabilità infatti, la giovane sarebbe stata trasferita in un campo di sterminio, particolare che rende questa storia ancora più ingiusta ed insensata.

La lettera così prosegue: «Babbo amatissimo, ti ho spedito un piccolo pacco che, voglio sperare, non ti sembrerà troppo meschino. È un piccolo regalino per te. Credo che non uscirò più di quel ginepraio sul portone del quale dovrebbe essere scritto in lettere di fuoco: voi che entrate qui, lasciate ogni speranza».

Una lettera che assume i contorni di un vero e proprio grido di dolore. Una lettera che testimonia l’esistenza di una fragilissima e giovane innocente, probabilmente sottratta alla vita, senza un motivo. Una ragazza semplice e piena di vita che per l’imminente Natale sperava semplicemente  nell’arrivo di un pacco di dolciumi: “quelle dolci cose che mi fanno venire l’acquolina in bocca solo a pensarci“.


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