Terremoto di Messina del 1908, il sisma del secolo: 37 secondi distrussero secoli di civiltà


Ormai in quel lido, non altra opera umana si compie che l’ultima; il seppellimento. Non si aggirano tra le rovine se non fossori. E i fossori sono militi, come dopo una battaglia. E fu invero una battaglia quale mai non si raccontò nella storia degli uomini. Una immensa torma di cavalli […] sembrò passare al galoppo, sottoterra, nella fragorosa carica di un minuto. Una bocca di fuoco sparò […] col rombo di cento cannoni in uno, nel cupo silenzio della notte. E il mare si alzò di cinquanta metri, e la terra si abbassò e poi balzò su. E un soffio vastissimo di luce rossa, come un’improvvisa aurora boreale, alitò dal lido opposto; e un astro o più astri si sgretolarono in cielo. Fu una battaglia davvero, ma di Titani, ridesti dal loro sonno millenario in fondo agli abissi, e ritrovatisi in cuore la terribile loro collera primordiale. Ora in quel campo di battaglia, battaglia durata un attimo, dopo quindici giorni si procede all’opera ultima e postuma“.

Con queste parole commosse Giovanni Pascoli commemorò nel gennaio 1909, all’Università di Bologna, le vittime causate dal terremoto e dal maremoto che il 28 dicembre 1908 avevano devastato entrambe le sponde dello Stretto di Messina.

Fu, ed è ancora, il sisma più devastante mai registrato in Italia: per 37 interminabili secondi la terrà tremò con una intensità pari ai 10 gradi della Scala Mercalli (che arriva a un massimo di 12). Erano le 5:20 del mattini e fu solo la prima di una lunga serie, che in poco tempo portò alla distruzione di Messina (rasa al suolo per il 90%) e di Reggio Calabria, ma soprattutto alla morte di un numero di persone calcolato tra le 50 e le 100 mila persone.

Tra i terrorizzati testimoni oculari anche un giovanissimo Salvatore Quasimodo, all’epoca un bambino di appena 7 anni. Restò talmente scosso dal cataclisma che lo ricordò ben quarantotto anni dopo nella poesia “Al padre”: “Il terremoto ribolle da due giorni, è dicembre d’uragani e mare avvelenato”. Tra l’altro il padre Gaetano, ferroviere, fu mandato – con famiglia al seguito – a ripristinare le linee ferroviarie di quello che restava di Messina. E il piccolo Salvatore visse nei vagoni dei treni, insieme a molti terremotati.

Altra celebre figura italiana a ricordare – sulle pagine dell’Avanti – lo sconquasso di quei giorni fu il meridionalista Gaetano Salvemini, l’unico della sua famiglia a riemergere vivo dalle macerie: “Ero in letto allorquando sentii che tutto barcollava intorno a me e un rumore di sinistro che giungeva dal di fuori. In camicia, come ero, balzai dal letto e con uno slancio fui alla finestra per vedere cosa accadeva. Feci appena in tempo a spalancarla che la casa precipitò come un vortice, si inabissò, e tutto disparve in un nebbione denso, traversato come da rumori di valanga e da urla di gente che precipitando moriva. Il futuro deputato e allora docente universitario, quella mattina perse la moglie, i 5 figli e una sorella.

Lo stesso governo, all’epoca ancora monarchico si interessò ovviamente al tragico evento, tanto che in una relazione al Senato del Regno, datata 1909, si legge: “Un attimo della potenza degli elementi ha flagellato due nobilissime province – nobilissime e care – abbattendo molti secoli di opere e di civiltà. Non è soltanto una sventura della gente italiana; è una sventura della umanità, sicché il grido pietoso scoppiava al di qua e al di là delle Alpi e dei mari, fondendo e confondendo, in una gara di sacrificio e di fratellanza, ogni persona, ogni classe, ogni nazionalità. È la pietà dei vivi che tenta la rivincita dell’umanità sulle violenze della terra. Forse non è ancor completo, nei nostri intelletti, il terribile quadro, né preciso il concetto della grande sventura, né ancor siamo in grado di misurare le proporzioni dell’abisso, dal cui fondo spaventoso vogliamo risorgere. Sappiamo che il danno è immenso, e che grandi e immediate provvidenze sono necessarie”.


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