Pontelandolfo e Casalduni: quando l’Esercito Italiano bruciò vivi donne e bambini


All’indomani della proclamazione del Regno d’Italia, in molti territori appartenenti all’ormai ex Regno delle Due Sicilie, si verificarono non pochi casi di resistenza di matrice filoborbonica contro il neonato Stato sabaudo. Rivolte e tumulti, spesso capeggiati da semplici cittadini o da militari dell’ex esercito duosiciliano, erano all’ordine del giorno. Uno di questi episodi si verificò il 7 agosto 1861 quando i componenti della brigata Fra Diavolo, capeggiati da Cosimo Giordano ex sergente di Sua Maestà Francesco II di Borbone, occuparono i paesi di Pontelandolfo e Casalduni, in provincia di Benevento, ed issata la bandiera borbonica vi proclamarono un governo provvisorio.

L’11 agosto del 1861 un commando composto da quaranta soldati e quattro carabinieri ebbe l’incarico, da parte del governo centrale, di effettuare una ricognizione per appurare la portata della sommossa. Giunti alle porte dei due paesi, questi uomini vennero catturati dai briganti coadiuvati dalle popolazioni del posto. Il destino che li attese fu quello della morte.

Appresa la notizia il generale Enrico Cialdini non esitò a ricambiare il favore, pretendendo una celere vendetta che ripagasse il sangue col sangue. Accecato dalla rabbia tuonò: «Li voglio tutti morti! Sono tutti contadini e nemici dei Savoia, nemici del Piemonte, dei bersaglieri e del mondo. Morte ai cafoni, morte a questi terroni figli di puttana, non voglio testimoni, diremo che sono stati i briganti». A queste parole intrise di odio e vendetta verso quelle popolazioni che avevano osato assassinare i soldati del Regno d’Italia e che avevano avuto l’ardire di ribellarsi ai nuovi detentori del potere politico, seguì un vero e proprio eccidio, dimenticato troppo facilmente dal governo italiano e subito ridimensionato dalla storiografia del vincitore.

«Di Pontelandolfo e Casalduni non rimanga pietra su pietra». Questo fu l’ordine del generale Enrico Cialdini rivolto al colonnello Pier Eleonoro Negri ed al maggiore Melegari, che erano a capo di due reparti dell’esercito rispettivamente diretti a Casalduni e Pontelandolfo. Il primo comune fu trovato quasi deserto poiché i cittadini vennero avvertiti della rappresaglia. A Pontelandolfo invece la sorte fu meno benevola ed il destino di quelle genti fu segnato da una morte abominevole e violenta. I cittadini vennero infatti sorpresi e colpiti nel sonno. Le case distrutte ed incendiate, le chiese profanate, gli uomini brutalmente fucilati. Le donne prima subirono percosse e violenze sessuali e poi vennero uccise. Nemmeno i bambini vennero salvati dalla furia distruttrice del commando di bersaglieri che li arse vivi nelle loro abitazioni. La punizione inflitta alle popolazioni di Pontelandolfo e Casalduni doveva essere e fu, di fatto, esemplare. Le due città vennero rase al suolo così come il generale Cialdini aveva ordinato.

Queste le modalità del massacro riportate dal militare Carlo Margolfo nelle sue memorie:

«Al mattino del giorno 14 (agosto) riceviamo l’ordine superiore di entrare a Pontelandolfo, fucilare gli abitanti, meno le donne e gli infermi (ma molte donne perirono) ed incendiarlo. Entrammo nel paese, subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava; indi il soldato saccheggiava, ed infine ne abbiamo dato l’incendio al paese. Non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli cui la sorte era di morire abbrustoliti o sotto le rovine delle case. Noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava…Casalduni fu l’obiettivo del maggiore Melegari. I pochi che erano rimasti si chiusero in casa, ed i bersaglieri corsero per vie e vicoli, sfondarono le porte. Chi usciva di casa veniva colpito con le baionette, chi scappava veniva preso a fucilate. Furono tre ore di fuoco, dalle case venivano portate fuori le cose migliori, i bersaglieri ne riempivano gli zaini, il fuoco crepitava.»

Purtroppo non conosciamo il numero esatto dei caduti e le cifre che si rincorrono sono discordanti, c’è chi ha parlato di 400 vittime, chi di 1000 addirittura. C’è, ancora, chi nega l’eccidio. In questo scenario di verità storiche celate e di passato alterato abbiamo una sola certezza. Quella verificatasi dopo l’Unità d’Italia è stata una vera e propria guerra civile, tra i nuovi dominatori che avevano negli emblemi di casa Savoia la fonte del loro potere e tra i vinti della storia, quelli che la storiografia ha definito in maniera dispregiativa “briganti”. Una lotta impari e sanguinaria, tra un esercito addestrato ed armato fino ai denti contro contadini, artigiani, commercianti o più semplicemente uomini che non hanno voluto piegarsi agli interessi ed all’arroganza dei “fratelli Piemontesi”, ma che rimanendo fedeli ai loro ideali, non hanno avuto paura di immolare le loro stesse vite in nome della propria libertà ed identità.

Nel 2011, tardive ed intempestive, sono arrivate le scuse ufficiali dello Stato Italiano che orripilato dal terribile eccidio ha posto una lapide nei luoghi della strage, impiegando la bellezza di 150 anni per ammettere che massacro fu! Meglio tardi che mai.

Fonti:

– Gigi Di Fiore, I vinti del Risorgimento, Torino, UTET, 2004.
– Giovanni De Matteo, Brigantaggio e Risorgimento, Napoli, Guida, 2000.
– Aldo De Jaco, Il brigantaggio meridionale, Editori Riuniti, 2005.
– Giordano Bruno Guerri, Il sangue del Sud.


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