Faraone: un gioco d’azzardo oggi andato in disuso e un tempo molto diffuso anche a Napoli. Conosciamo le caratteristiche


Il gioco d’azzardo con le carte ha avuto un certo eco dal barocco in poi. Questa “influenza” colpisce l’intera Europa e anche Napoli. Giacomo Casanova nella sua “Storia della mia vita” descrive diversi giochi di carte esistenti e, fra questi, si distingue il faraone o la faraona.

Lui cita di questo gioco che si pratica anche a Napoli e interessa soprattutto l’estrazione sociale aristocratica. Aggiungiamo che anche i monarchi sono inclusi: la regina Maria Antonietta è stata una fan del faraone. Esso è un gioco assai rischioso con alte vincite o pesanti perdite. Ciò non deve meravigliare che ci fossero casi di tensione tra i partecipanti. Quanto detto è visibile per esempio in “La Guerra” di Carlo Goldoni, una commedia divisa in 3 atti. Essendo un gioco rischioso non mancano testi come “Le opere” di Cesare Beccaria cui si traccia delle linee guida per il giocatore nel fornire giocate vincenti.

Il faraone nel corso del tempo diventa sempre più diffuso, quindi gli Stati della penisola si occupano di regolarlo: orari di gioco, quali e come devono essere le carte etc. Ricordiamo l’esempio di Lucca nel “Casino dei Bagni” nel 1839 per opera di Carlo Ludovico di Borbone infante di Spagna e re di Lucca.

Tuttavia come ogni cosa ha un suo inizio e una sua fine: infatti in “L’enciclopedia italiana e dizionario della conversazione”, ci spiega che, nel 1845, il gioco sta andando in disuso. Oggi possiamo certamente affermare che il faraone è quasi sconosciuto ai più. È giunto il momento di farlo riscoprire e lo facciamo seguendo le stesse parole del suindicato testo:

“Il banchiere, che dicesi comunemente tagliatore, lotta solo contro un numero indeterminato di giocatori che diconsi puntatori. Un puntatore sceglie a suo arbitrio una delle cinquantadue carte (italiane) d’un giuoco o mazzo, per esempio un re, e vi mette su, cioè vi scommette una moneta; il tagliatore, che ha in mano il mazzo delle carte, scopre le due prime carte di esso e le posa scoperte sul tavolino: se la prima di queste è quella stessa sulla quale il puntatore ha posto la moneta, cioè un re, il tagliatore guadagna essa moneta intera; se invece il re del puntatore è la carta che scopresi seconda, è egli allora che guadagna, ed il tagliatore deve pagargli una moneta eguale a quella da lui puntata, cioè giuocata o scommessa; se nessuna di esse due carte è un re, quel taglio nulla produce pel puntatore che ha scelto esso re, e servir può invece per tal uno degli altri suoi colleghi; che se mai le due carte, che scopre in una volta il banchiere o tagliatore, fossero entrambe la carta stessa del puntatore, cioè due re, locché dicesi un doppietto, in tal caso il banchiere guadagna la metà della moneta giocata dal puntatore. Oltre a questo vantaggio dei doppietti, il banchiere ha anche quello del vigesimosesto o ultimo paio di carte di ogni taglio (dicesi taglio egualmente e ciascun paio di carte che il banchiere scopre, e l’intera serie di queste paia, che sono ventisei perché sono cinquantadue le carte che compongono un mazzo), nel quale non è esso tenuto a pagare le poste vincenti, quelle cioè le cui carte escon seconde, essendo soltanto autorizzati i puntatori di esse a ritirarle senza guadagno né perdita”.

Bibliografia:

C.Beccaria, Le opere, Firenze, Le Monnier, 1854

Bollettino delle leggi del ducato Lucchese, tomo XXIV, Bertini, 1839

G.Casanova, Storia della mia vita, 1° Edizione digitale, 2015

Enciclopedia italiana e dizionario della conversazione, Venezia, di Girolamo, 1845

C.Goldoni, Opere (Le guerre), Milano, Nicolò Bettoni, 1841


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