I Funky Pushertz: dal rap sullo “scoglio della patana” a Daniele Silvestri


Se Torre del Greco avesse una Walk of Fame la prima stella sarebbe senza dubbio la loro. Perché Mastunzò, Reddogg, Boom Buzz, Kayaman e Tonico 70, i cinque amici componenti dei Funky Pushertz, sono i primi corallini ad aver sfondato gli angusti confini della provincia col loro talento: nati e cresciuti a Torre del Greco, hanno precorso i tempi inaugurando un modo di fare musica particolare e personalissimo che fa del funk la sua colonna portante, attingendo alla blackmusic ma senza rinunciare alla lingua partenopea, o meglio, rigorosamente torrese.

Esordio nel 2003, primo disco autoprodotto datato 2004, nel corso della loro lunga gavetta hanno collezionato numerosi successi che li hanno collocati di diritto nell’olimpo dell’hip pop campano, rendendoli richiestissime guest star di eventi e jam e autori di numerosi featuring con famosi artisti come Almamegretta.

Il loro sound è giunto all’orecchio di uno dei più geniali e sensibili esponenti del nostro cantautorato: Daniele Silvestri. Dopo aver collaborato con l’artista romano in Bio-Boogie, irriverente ballata contenuta nell’album Acrobati, i Funky Pushertz hanno avuto il raro onore di inaugurare il suo concerto romano, sabato 24 giugno. Con loro abbiamo parlato di musica, autenticità, successi. E della nostra splendida città.
Partiamo dalla collaborazione con Silvestri. Ci raccontate come è andata?
“Un giorno, all’improvviso, ci arriva una chiamata. Era la manager di Silvestri. Noi non avevamo mai avuto prima contatti con lui, è stata una sorpresa. Non sappiamo come, ma la sua manager aveva avuto il numero di uno di noi. Quando siamo andati a Roma, da Daniele, a registrare, glielo abbiamo chiesto, come mai proprio noi, come era nata quest’attenzione per noi. Lui ci ha spiegato che era stato Roy Paci a segnalargli il nostro gruppo, dopo aver visto dei nostri video sul web. E così è nata la nostra collaborazione al disco che lui stava preparando. Abbiamo registrato a gennaio dello scorso anno”.

Che tipo è Silvestri? Eravate suoi fan già prima della collaborazione in Doppio Boogie?
“È una persona sorprendentemente normalissima. Stakanovista nel senso sano del termine…per la sua dedizione, la passione che mette nel lavoro. Abbiamo subito cominciato a lavorare sul pezzo. È molto aperto, anche nelle collaborazioni, lavora a tante cose, coinvolgendo anche ragazzi molto giovani. Ci ha chiesto di raggiungerlo al suo concerto a Roma il 24 giugno e abbiamo fatto insieme, live, il pezzo al quale avevamo collaborato. È stato fantastico. E si, eravamo suoi fan anche prima. È, insieme a Fabi e Gazzè, forse l’unico vero cantautore rimasto nella musica italiana. E ha tra l’altro uno stile molto particolare: alterna pezzi leggeri a pezzi anche molto introspettivi. Senza mai perdere l’ironia. Che lo accompagna anche fuori dal palco. È molto fraterno e gioviale”.

Voi siete operativi dal 2003. Come è nata la vostra avventura?
“Il gruppo nasce nel 2003, alcuni di noi si conoscevano già, con altri ci siamo ritrovati strada facendo. La nostra sigla inizialmente era Funky Pushertz Movement, una sorta di piccolo movimento, circoscritto a Torre del Greco, di gente che aveva in comune l’interesse per la cultura dell’hip pop, c’era il dj, dei writers…All’inizio bazzicavamo i luoghi tipici di Torre, per esempio la Villa Comunale, che oggi forse non è più di moda ma noi ci ostinavamo a frequentarla (ridono, ndr). Poi ci siamo trovati un piccolo posticino, la Funky House, dove abbiamo lavorato a diversi progetti, tra cui la nostra prima demo, “Breakfast”, che comprende diversi brani che tuttora ci chiedono nei live e che non facciamo, per una questione di memoria. Poi la formazione è cambiata nel tempo, così come sono cambiate le esigenze”.

Una delle vostre hit più famose si intitola proprio “Veng ra Torr”. Essere nati in provincia è stato limitante o ha rappresentato una risorsa?
“Quello che abbiamo vissuto da piccoli ci ha formato e ha ispirato la nostra musica, già prima di concretizzarla in un genere. Quello che oggi noi cantiamo, è ciò che abbiamo vissuto e sperimentato in prima persona della nostra città. È stato facile e difficile allo stesso tempo. La provincia è lontana dalle occasioni ma poiché ci credevamo davvero non esitavamo a metterci in macchina e raggiungere una Jam che poteva esserci utile e che si teneva, per esempio, a Salerno”.

Fin dalla genesi i vostri lavori, da Breakfast a Lunch fino a La Grande Abbuffata, hanno avuto titoli connessi al cibo. Quanto è stato voluto e quanto invece fa parte del gioco e dell’ironia che da sempre vi contraddistingue?
“L’idea è nata per gioco. Il pensiero di base è legato al fatto che noi ci siamo sempre nutriti di musica, in particolare di funk. La copertina della prima demo, non a caso, era una busta di latte, o meglio, di funk. È stato quindi naturale continuare quest’idea del funk come pietanza, come pane quotidiano. Il secondo lavoro, “Lunch”, aveva in cover una ciotola. Per questo poi abbiamo scelto come nome “Funky Pushertz”: siamo nati con la missione di portare in giro il messaggio della musica funk, precursore del rap, che ha delle origini molto antiche, lontane dall’Italia. Sarà un caso o destino, ma due componenti del gruppo oggi lavorano nell’ambito culinario. Musica e cibo sono più legati che mai”.

Quale è la vostra più grande soddisfazione?
“Aver avuto stimoli che ci hanno permesso di produrre musica a sua volta stimolante per qualcuno, oltre che per noi stessi. Soddisfazioni ne abbiamo avute tante…quella più grande è vedere la gente che si riconosce nei nostri pezzi, che li canta ai live…percepirne il sostegno”.

Un messaggio per i giovani che vogliono provare a sfondare nella musica?
“Non c’è molto dire…Noi stessi siamo ancora alla ricerca di un equilibrio. Certi backstage, certe realtà non smetteranno mai di stupirci. Sicuramente possiamo suggerire di non ghettizzarsi, fare gruppo, restare uniti, aprirsi al confronto. E crederci: la più grande spinta viene da dentro. Nessuno mai ti prenderà sul serio se tu per primo non credi in te stesso”.

Che musica ascoltate?
“Abbiamo bagagli musicali molto diversi tra noi. La musica black è quella che poi ci ha accomunato. Ma nessuno di noi ha mai ascoltato solo quella. Ecco perché la nostra musica non è solo rap, non è solo funk, ma aperta a diversi generi”.

I vostri pezzi infatti appaiono ibridi, anche da un punto di vista lessicale. Spicca il dialetto, non napoletano, ma torrese, unito a termini inglesi. Un rap in dialetto misto all’italiano, alcune espressioni idiomatiche le avete riassunte in un credo, Veng ra Torr.
“Il dialetto è la lingua dello sfogo, dell’istinto. Se sei arrabbiato o emozionato ti viene naturale esprimerti in dialetto. Per noi la musica è anche una forma di sfogo, ecco perché il dialetto è la nostra cifra distintiva. Dialetto torrese, unico nel suo genere, che magari nei comuni limitrofi non capiscono. E ci deridono anche, per la pronuncia, per alcuni termini come la “svizzerina“. Si dice solo qua!. Nell’ultimo disco la maggior parte dei pezzi sono in italiano, nonostante il pubblico apprezzi la musicalità del nostro dialetto è giusto comporre anche in italiano per arrivare a più persone. È anche una sorta di sfida con noi stessi”.

Come nascono i vostri pezzi?
“Ognuno scrive la sua parte. Spesso il ritornello lo componiamo insieme, una specie di sintesi del messaggio del pezzo. Lavorarci insieme ci aiuta anche a rendere più efficace il live”.

Torre del Greco come vi ha influenzato?
“Noi abbiamo vissuto in maniera veramente molto intensa la nostra città. Per noi sono stati magici il Vesuvio e il mare. Sul famoso “scoglio della Patana” per esempio è venuto fuori un brano, presente in “Breakfast” intitolato Non fa rumore. È nato così, da un pomeriggio trascorso coi piedi nell’acqua, a scrivere e goderci la brezza marina. Commentando insieme le figure tipiche del quartiere. Ogni posto di Torre del Greco ci ha influenzato: per esempio la “piazzetta” dove si faceva da bambini la spesa con la mamma e si respiravano suoni, odori particolari che ci sono poi rimasti dentro. Anche certe espressioni che usiamo nei pezzi, la famosa svizzerina appunto, vengono da lì. E poi la Vigilia di Natale: qui in città è un vero rituale alcolico e di condivisione, tutti gli anni si riversano in strada migliaia di persone. Una volta ci siamo esibiti in villa dal tetto del cinema Corallo: come i Beatles, ma tre volte più grezzi. Un’emozione resa grande dal fatto che era un appuntamento importante per la nostra città, tra la nostra gente. Ad oggi certe tradizioni della nostra generazione si sono perse: la Festa dei Quattro Altari era fortemente identitaria, aveva una grande radice storica e socio-culturale. Per noi per esempio il Carnevale era uova e farina che ci lanciavamo tra amici, facciamo fatica a riconoscerci e capire certe dinamiche moderne”.

Si può vivere di musica al giorno d’oggi?
“Si può vivere per la musica. Ed è quello che facciamo noi. Ognuno di noi fa la sua vita a livello pratico ma la finalità è sempre la stessa: continuare a fare musica. Abbiamo sognato e fatto tante cose fino ad ora: speriamo di riuscire un giorno a vivere di musica. Ma soprattutto vorremmo arrivare ad un numero sempre più grande di persone”.

Sul web siete molto attivi e popolari. Che rapporto avete coi social? Vi è mai capitato di imbattervi in un hater?
“No! Per fortuna, fino ad ora, no. Il massimo è stato un dislike al video, ma è naturale, non si può piacere a tutti. Se piacessimo a tutti saremmo ricchi, forse, ma non sarebbe normale. Noi proviamo ogni giorno a non essere incoerenti con la nostra musica. Le critiche devono esserci e sono costruttive, ma haters…no mai!”

Progetti futuri? Pensate mai alla possibilità di partecipare a un talent? O al Festival di Sanremo?
“Non possiamo anticipare molto, ma ci sono diversi progetti in cantiere. Il talent non è la nostra dimensione, sentiamo di poterlo escludere. Sanremo, chissà, a modo nostro, un giorno forse si”.


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