I migranti in lotta per l’Europa dell’ospitalità

Il 18 settembre 2008 sette immigrati furono massacrati dalla camorra casalese del clan di Giuseppe Setola. L’8 gennaio 2010 altri due immigrati furono feriti in seguito a una sparatoria inaugurata da un fuoco incrociato dei caporali che gestiscono il lavoro di raccolta stagionale dei pomodori; questi repressero nel sangue una rivolta degli immigrati contro le condizioni schiaviste di lavoro. Il 13 luglio scorso due migranti, di origini nigeriane, sono stati gambizzati per una sospetta rapina. A tutti questi episodi di violenza sono seguite vere e proprie guerre urbane dove relitti umani, in cieche esplosioni di rabbia, hanno manifestato il loro stato di disagio e precarietà.

Su tutti questi episodi ha lavorato il più vuoto giornalismo, l’informazione di cronaca che non oltrepassa la raccolta di dati empirici in merito ad eventi contingenti. Tutto ciò mentre la politica istituzionale riduceva ed esaurisce una questione sociale in un grave problema di sicurezza o di polizia. Eppure dopo schiene piegate, arti lacerati, spranghe lanciate, proietti sparati, cadaveri fumanti mancano ancora punti di domanda cruciali: chi sono queste genti? Chi sono questi migranti? Quali sono le loro storie? Per quale ragione questi si sono sollevati fino a mettere a repentaglio le loro vite? Quali sono state le ragioni impellenti che hanno legittimato spargimenti di sangue a danno loro e delle comunità ospitanti?

Al centro di tutto, ancora una volta, sembrerebbero essere questioni vecchie di secoli, tra cui il conflitto, l’antagonismo, tra capitale e lavoro. L’ultima rivolta di migranti non è stata solo una storia tra tante di razzismo e xenofobia, ma tra lavoratori ridotti in schiavitù, gruppi invisibili socialmente, e i padroni delle terre. Questi ultimi, cavalcando l’esasperazione di un’integrazione deficiente e impossibile a partire da queste condizioni, non si sono fatti scrupoli di infliggere la coercizione delle armi.

Da Rosarno a Castel Volturno, da Milano alle Calabrie, dal Canale di Sicilia alla Libia stiamo assistendo all’irruzione nella storia di un nuovo futuro per l’Europa. L’Europa dell’attualità è un calderone di popoli l’uno contro l’altro, capitalismi mercantilistici intenti a schiacciarsi l’uno contro l’altro. L’ultima crisi è stata e continua ad essere una crisi di sistema; le ristrutturazioni come le conquiste di vecchi e nuovi mercati stanno riscrivendo le storie nazionali, e la nuova rivoluzione industriale (del digitale e delle nuove fonti di energia) sta stravolgendo le cartine fisiche e geopolitiche globali.

Questi migranti ci sbattono contro la menzogna di un’Europa con una valuta unica ma priva di una sovranità politica. Questi migranti ci testimoniano il paradosso dell’esistenza di una costituzione europea, di un parlamento europeo, senza un popolo, senza una cittadinanza che può definirsi tale. L’Europa contemporanea è un Europa dei capitali privilegiati ma stenta a decollare come federazione, o come qualsiasi tipo di progettualità che abbia la finalità di un destino unico. Un’Europa figlia di un’unica regolamentazione del lavoro, dell’ospitalità e della fiscalità potrebbe essere una prima tappa per la costruzione di un popolo europeo? Non si sa ma certamente i migranti in lotta nel nostro paese, come i migranti di origini italiane in altri, testimoniano l’urgenza di una tappa del genere.

Nelle spranghe tremanti, nelle barricate, negli scudi infranti dei poliziotti in tenuta antisommossa, nel sangue versato vive un’antagonismo per il riconoscimento, l’integrazione e la solidarietà sociale. Questi ultimi traguardi  stentano ad essere raggiunti, ma ciò non vuol dire che non possano essere prima o poi presi.

Troppo spesso dimentichiamo le fiumane umane che dall’Europa meridionale muovono verso il nord del mondo alla ricerca di una migliore qualità della vita, o semplicemente di un lavoro. Italiani, spagnoli, francesi, greci, tedeschi sono ormai da tempo gli extracomunitari, i migranti di quest’Europa a due velocità. Gli arabi, i subsahariani, gli asiatici non sono diversi da noi, sono masse di uomini e donne che vengono sradicate dalle loro terre in cerca di lavoro, in cerca d’ospitalità. I migranti sono proletari che lottano contro la schiavitù, contro la miseria, per l’emancipazione e la costruzione di un’Europa migliore, un’Europa per tutti.

Come possiamo imparare dalle realtà difficili di Castel Volturno, di Rosarno, della periferia milanese o di quella parigina? Come possiamo noi ritornare a lottare per noi stessi e per l’emancipazione dei nostri figli? Iniziando a porci domande senza essere assorbiti dal pensiero unico che esilia qualsiasi dibattito critico in tal senso?

Forse riscoprendoci come un popolo di migranti in lotta per il riconoscimento e l’ospitalità, il lavoro e una comunità politica nostra?