La malattia virale comunemente riconosciuta come Spagnola, fortemente contagiosa, diffusasi fra il 1918 e il 1920, è rimasta nella storia come “la grande influenza“. I dati emessi dall’Istituto Superiore di Sanità riportano il numero di vittime: in soli due anni sono state registrate 50 milioni di persone decedute. Una pandemia senza rivali, dunque, che si insinuò anche negli angoli più remoti del mondo, dal Mar Glaciale Articolo alle più lontane isole del Pacifico.
Studi dimostrarono che negli organismi maggiormente sani, il sistema immunitario produceva in risposta all’infezione quantità eccessive di citochine, particolari tipi di proteine. Da questo scaturiva un’insufficienza respiratoria graduale e letale. Diversa era la situazione dei soggetti con un sistema immunitario più debole, come gli anziani: per loro le probabilità di sopravvivenza sarebbero risultate maggiori.
Le prime notizie della diffusione arrivarono dai giornali di Madrid nella primavera 1918. l’Agenzia di stampa spagnola Fabra diffondeva un comunicato allarmante: “Una strana forma di malattia a carattere epidemico è comparsa a Madrid… l’epidemia è di carattere benigno non essendo risultati casi letali”.
Scene tratte da un’immaginaria Sorrentinos, un’ambientazione partenopea, saranno unite per sempre al male che stava colpendo la popolazione, il quale, infatti, poi verrà riconosciuto con l’appellativo, ‘Soldado de Nápoles’ (Soldato di Napoli).
In particolar modo, il librettista Federico Romero commentò l’opera dicendo che sopportò eroicamente “la terribile epidemia di febbre detta “il soldato di Napoli” perché questa serenata era tanto orecchiabile quando la malattia, sebbene meno mortale”.
Questa dichiarazione fu riportata nell’opera di Ryan Davis “The Spanish Flu: Narrative and Cultural Identity in Spain“. Parole che sancirono la nascita della correlazione tra il virus e la lugubre immagine di morte e malattia rappresentata nel soldato di Napoli.
Dal principio l’epidemia da Covid-19 è stata paragonata in tutti i suoi aspetti con la ‘spagnola’. Le complicanze a carico del sistema respiratorio, infatti, sembrano accomunare le due malattie. Ciononostante, è importante riconoscere il periodo storico del 1918. Era la fine della prima guerra mondiale, dove i soldati vivevano in trincea, ammassati, deperiti e allo stremo. La popolazione, scoraggiata, pativa il freddo dell’inverno e la fame.
Di conseguenza, malnutrizione, scarsa igiene e ospedali sovraffollati trasformarono la violenza del virus in un’infezione batterica di portata mondiale. Sintomi emorragici in diverse parti interne dell’occhio, emorragia delle mucose, in particolare da orecchie, naso, stomaco e intestino, erano gli effetti più frequenti.
La situazione cambiò radicalmente in un baleno. Dall’India al Brasile, dalla Persia alla Spagna, dal Sudafrica all’Ucraina, l’intera popolazione mondiale rimase affetta da questo potente killer. Le restrizioni da parte de Governo arrivarono da subito. Furono alzate barricate intorno alla città e tutte le famiglie restarono in casa, all’epoca senza tv. I bambini studiarono da casa, e 100 anni fa come oggi, l’isolamento pareva l’unica soluzione per debellare il virus.
Tra le tante testimonianze, quella lasciata dal pittore, Edvard Munch, anch’esso colpito dal male, resta la più emblematica. Decise di dipingere sé stesso durante la malattia. L’opera ‘Autoritratto dopo influenza spagnola’, raffigura tutti i segni dell’ epidemia: persone che parevano spettri. A un visitatore che osservava il suo Autoritratto definì la puzza nauseante, dichiarando: “Non vede che sono quasi sul punto di decompormi? Sfumature cupe del rosso color sangue, decomposizione e disfacimento”.