Riti satanici e sacrifici di animali: viaggio spaventoso nell’Hotel Eremo

L’Hotel Eremo è un luogo dalla ben nota fama per chi vive alle pendici del Vesuvio. Si trova a un’altitudine di 400 metri nel territorio che appartiene al Comune di Ercolano, a ridosso dell’Osservatorio Vesuviano, protetto dal colle Umberto sui cui lati si riversano le colate di lava che fuoriescono durante le eruzioni del vulcano.

Luogo dalla ben nota fama, dicevamo. Si dice infatti che qui vengano svolti riti satanici, con tanto di croci rovesciate, simboli satanici e teste di animali mozzate. Pare che sia inoltre infestato da fantasmi, i quali si manifesterebbero attraverso voci che invitano i visitatori ad andare via. Quanta verità c’è in tali racconti? Per scoprirlo abbiamo fatto delle indagini e siamo andati a visitare di persona l’Hotel Eremo.

Se provate a chiedere in giro informazioni sull’Hotel Eremo non ne ricavate, in verità, molto: costruito nel 1902 da John Mason Cook, fino alla fine degli anni Ottanta è stato una location superba dove alloggiare o dare ricevimenti, in particolar modo matrimoni. Cook l’aveva ideato come punto di ristoro per tutti quei visitatori e turisti che avevano intenzione di salire fino al cratere del Vesuvio, realizzando una stupenda struttura in stile Liberty dalle cui terrazze si gode di una vista magnifica su tutto il golfo di Napoli e il cono del vulcano. Nei pressi dell’hotel vi era la ferrovia vesuviana Cook, che da Pugliano giungeva a 753 metri d’altezza, in corrispondenza della funicolare del Vesuvio la quale a sua volta saliva fino al cratere. Prima del 1902 pare che ci fosse una locanda dove un eremita offriva da mangiare ai turisti del Grand Tour, da cui il nome dell’hotel.

L’ultimo proprietario sembra essere stato un certo Mario Paudice, commendatore, che pur di non cedere l’Hotel Eremo in mani di terzi ha lasciato la struttura all’abbandono. Sembra che l’attività fosse economicamente produttiva, gettonatissima per gli eventi. Così l’albergo, composto da due piani più piano terra, è diventato principalmente meta di vandali che hanno distrutto tutto ciò che si poteva distruggere.

All’esterno dell’Hotel Eremo troviamo ancora il cancello di metallo con la scritta recante il nome dell’albergo. Oggi è chiuso, ma in passato consentiva di percorrere il viale, attualmente impraticabile, che porta all’ingresso principale sito al piano terra. Bisogna dunque intraprendere la strada sulla destra, che porta sul retro e consente di accedere al primo piano. Da lì è possibile sia scendere al piano terra che salire al secondo piano, ma le scale non sono sicure: manca il corrimano e, per ciò che si può osservare, potrebbero anche crollare da un momento all’altro.

Visitando le sale e le camere se ne riesce ancora a intuire l’eleganza e lo sfarzo. Le mura sono disseminate di scritte, prevalentemente a carattere sessuale; si comprende come il luogo venga spesso utilizzato per avere rapporti intimi nonostante le condizioni igieniche più che precarie. Durante il sopralluogo abbiamo scorto un murale dalla vernice ancora fresca, oltre a bottiglie di birra utilizzate molto recentemente.

Tra vetri rotti, macerie, materassi poggiati a terra e una porta miracolosamente in equilibrio sulle scale nessuna traccia di animali sacrificati o segni particolari che si possano ricondurre al satanismo, per lo meno a chi non conosce la materia in modo approfondito. Si notano soltanto un pentacolo rosso disegnato nella grande sala al primo piano e un murale che ritrae un diavolo (dalle foto è evidente che non si tratta dell’opera di un satanista). Alla statua di Gesù nel cortile d’ingresso sono stati colorati gli occhi di rosso. Opera più probabilmente di ragazzi in cerca di divertimento, seppur si tratti di una discutibile maniera di divertirsi.

Se restano dubbi sull’utilizzo contemporaneo dell’Hotel Eremo, siamo sicuri invece delle potenzialità di una simile struttura, che al momento non rientra in alcun progetto di recupero. Nonostante l’abbandono è stata set di una piccola scena del film Il giovane favoloso, sulla vita di Giacomo Leopardi.

Foto: © Francesco Pipitone

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