Antonio Tajani
A inizio 2024 il ministro degli Esteri Antonio Tajani assicurava agli italiani che l’invio di armi a Israele era stato “bloccato completamente”. Pochi mesi dopo la stessa presidente del Consiglio ribadiva che l’Italia aveva assunto una posizione “più restrittiva di Francia e Germania” sospendendo ogni licenza di esportazione. Dichiarazioni solenni, da prima pagina, che sembravano mostrare fermezza e coerenza.
Ma basta guardare ai porti italiani per capire che quelle parole erano aria fritta. Mentre i ministri parlavano di stop totale, container pieni di munizioni ed esplosivi partivano regolarmente da Ravenna, Genova, La Spezia e Livorno. Il 30 giugno 2025, per esempio, la nave New Zealand caricava a Ravenna casse marchiate “esplosivi classe 1.4”, partite dalla Repubblica Ceca e destinate senza ostacoli a Israele.
Il porto romagnolo è diventato il simbolo della contraddizione. Non solo il carico di giugno: già a febbraio erano state individuate oltre 14 tonnellate di componenti “camuffati” da lamiere e cilindri, in realtà destinati all’industria bellica israeliana. Il destinatario era esplicito: Israel Military Industries. Senza la denuncia di lavoratori portuali, quelle forniture sarebbero passate sotto silenzio.
Dietro a queste spedizioni si muovono aziende italiane ben note: piccole ditte che fanno da intermediari, grandi industrie che producono pezzi militari e li immettono nel circuito fingendo che siano materiali civili. Un meccanismo rodato, che ha continuato a funzionare indisturbato anche dopo le dichiarazioni di Tajani.
Il punto è semplice: il governo ha sospeso le nuove autorizzazioni, ma ha lasciato in piedi quelle vecchie. In base alla legge sull’export militare, solo una decisione politica avrebbe potuto bloccare i contratti già attivi. Quella decisione non è mai arrivata. Così, mentre si parlava di blocco totale, milioni di euro in forniture continuavano a fluire.
Secondo i dati ufficiali, nel 2024 l’Italia ha esportato armamenti verso Israele per oltre 20 milioni di euro. Leonardo ha spedito sistemi elettronici, Fincantieri ha fornito materiali per il comparto navale. Nonostante la retorica del “blocco”, il business non si è mai fermato.
Ravenna non è un’eccezione: a La Spezia si producono cannoni navali, Genova resta lo snodo perfetto per passaggi discreti, Livorno poggia sulla base americana di Camp Darby. E mentre i traffici proseguono, le istituzioni si accusano a vicenda: il sindaco contro il ministero, Salvini contro l’autorità portuale, le dogane che rimbalzano la palla.
Intanto, il 16 settembre è annunciata una manifestazione di protesta davanti al porto di Ravenna, lo stesso giorno in cui nello scalo si terrà un incontro riservato con rappresentanti del Ministero della Difesa israeliano e dell’azienda Rafael, accusata di forniture usate nei bombardamenti su Gaza.
Le dichiarazioni di Tajani si sgretolano davanti ai fatti: non c’è stato alcun blocco totale. C’è stato, semmai, un gioco semantico per guadagnare tempo e proteggere affari miliardari. La politica italiana continua a predicare trasparenza e responsabilità, mentre dai moli partono armi e munizioni dirette in una guerra che ha già prodotto decine di migliaia di vittime civili.