Netanyahu, Trump e Von Der Leyen: gli interessi di USA e Europa su Gaza
Quando il mondo dorme. Così s’intitola il libro che Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla Palestina, ha pubblicato nel maggio scorso. La frase è senza dubbio eloquente e carica di significato. Dentro c’è perfettamente lo sguardo di un’intera epoca rivolto alla Terra Santa. Un mondo che dorme può infatti dimostrare quanto, nel lontano 1948, le potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale siano riuscite ad aumentare il caos nella regione più tormentata che ci sia.
Un mondo che dorme è in grado di spiegare le aggressioni arabe che da quella data si sono susseguite a danno dello Stato d’Israele, colpevoli di averne esasperato ancor di più le mire imperialistiche. Un mondo che dorme non s’accorge dei decenni di pulizia etnica perpetuata verso coloro che a ragione si definiscono le vittime delle vittime.
Bisogna però ammettere che su certi aspetti, il mondo ad oggi non dorme affatto. Non dormono più le piazze italiane, che lo scorso lunedì erano stracolme di solidarietà verso i palestinesi. Le vie storiche di Roma, la Stazione Centrale di Milano, il porto di Livorno non assistevano alla mobilitazione di simili masse da anni, forse decenni. I palermitani sono convinti che non si vedeva tanta gente protestare per le strade cittadine dalle grandi manifestazioni antimafia del 1992.
Sicuramente non dormono i governi dei Paesi occidentali, ormai costretti dall’opinione pubblica a prendere sì posizione ma che alla fine si traduce sempre in blande dichiarazioni di condanna o meri atti formali. Ma più di tutti non dorme (e non ha mai dormito) chi da questa strage sta battendo cassa, con la visione cinica e lo sguardo tronfio tipici di coloro che nella storia hanno sempre speculato sui drammi. Orbene, tale ultimo punto è fondamentale per comprendere le ragioni non manifeste ma che sono alla base del Genocidio. A tal punto da far seriamente sospettare che le motivazioni di carattere politico, sociale e religioso siano solo di facciata.
Non si può assolutamente comprendere una tragedia di questa portata se non si scava nel profondo del nuovo scacchiere mondiale in ambito energetico. Anzi, la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso partirebbe da qui ed ha un nome ben preciso: i c.d. “patti d’Abramo”. Si tratta di una serie di accordi commerciali che dovevano stipularsi tra U.S.A., Israele e vari principati aventi ad oggetto l’esportazione del greggio, ma poi bruscamente interrotti a seguito dei massacri del 7 ottobre 2023.
Tali negoziati, fortemente voluti dalla precedente amministrazione Trump e dal principe saudita Bin Salman, avrebbero avuto quale effetto principale l’estromissione dal mercato petrolifero occidentale dell’Iran, che ricordiamo essere la prima potenza dell’Islam sciita, nonché grande finanziatrice di Hamas. Alla luce di ciò, non sembra peregrina la tesi per cui il suggerimento a velocizzare le azioni contro Israele sia venuto proprio dall’entourage dell’Ayatollah, col fine di far saltare tali partnership.
Seppur rimasta “scottata” da un tale susseguirsi di eventi, da un lato sorprende come la prima potenza occidentale sia quella che oggi ostacoli di più il cammino verso una risoluzione pacifica. Se la linea del pieno sostegno alle operazioni militari dell’Idf era già intuibile dal comportamento del precedente esecutivo democratico, oggi pare essere addirittura confermata esplicitamente dalle parole pronunciate dall’attuale segretario di Stato americano Marco Rubio, durante la sua ultima visita a Tel Aviv. I buoni rapporti tra i due Stati però non possono spiegare da soli un tale asservimento degli statunitensi a Netanyahu.
Secondo un rapporto pubblicato dal Watson Istitute for International and Public Affairs, afferente alla Brown University di Providence, negli ultimi due anni Washington ha fornito una somma pari a 23 miliardi di dollari di aiuti allo Stato ebraico per contrastare gli ultimi attacchi di Hamas, una cifra mai raggiunta finora da un governo americano. Ma il dato più interessante è un altro. Risulta altresì che le condizioni legate a tali aiuti impongono al governo di Tel Aviv di utilizzare la quasi esclusività dei medesimi per l’acquisto di armi dalle aziende produttrici statunitensi.
Un tale costante flusso di denaro nelle casse delle apposite lobby non solo garantisce a quest’ultime profitti considerevoli attraverso un’operazione di recupero in patria del denaro dei contribuenti, ma fa sì che a crescere sia anche la richiesta di manodopera per la produzione. Una simile combinazione (denaro-armi-posti di lavoro) sarebbe quindi ciò che principalmente fa chiudere un occhio al governo di Donald Trump sulle atrocità di Gaza.
E l’Europa? Qualcuno direbbe che è quasi o del tutto sottomessa al volere dei potenti “cugini” d’Oltreoceano. Ad un’attenta analisi però, la situazione sembra essere più ingarbugliata e vede complicazioni su un altro importante mercato: quello dell’afflusso di denaro estero. L’UE è infatti il principale investitore in Israele, con un quantum di denaro diretto verso le sue start-up che ha toccato una quota di ben 72,1 miliardi di euro nel 2023, raddoppiando così gli Stati Uniti (fonte SOMO, report luglio 2025).
A sua volta, gli Stati dell’Unione sono anche i primi destinatari degli investimenti israeliani, i quali sono arrivati nel medesimo anno alla cifra di 66 miliardi di euro per tutta l’Eurozona. Di questi, due terzi sono diretti esclusivamente nei Paesi Bassi, in particolare per il loro regime fiscale favorevole ed i sistema di società “a scatole chiuse”, che lì risulta essere ormai una prassi consolidata. Non sconvolge quindi come, anche per il costante voto contrario di Amsterdam, da parte degli organi dell’Ue non si sia riusciti ad attuare delle efficaci sanzioni finanziarie contro Israele.
Come si evince al termine di questa breve analisi, in un tempo come il nostro, in cui non esiste politica che non sia influenzata dai gruppi economici-finanziari, appare davvero impossibile per il singolo apportare una reale modifica ad una tale impostazione. Troppi sono gli interessi coinvolti e l’imbarazzo dei governi difficilmente può tradursi (almeno nel breve periodo) in qualcosa di concreto. Non è però detta l’ultima parola. Per fortuna, a noi cittadini qualcosa residua. C’è l’informazione. C’è l’impegno. E seppur qualcuno se ne sia dimenticato, esiste anche il voto.