L’orco che viveva sul Vesuvio: un’antica favola napoletana


Una delle caratteristiche principali delle favole de “Lo Cunto de li Cunti”, scritto da Giambattista Basile, è che raramente i personaggi sono quello che sembrano: capita spesso che fanciulle bellissime siano foriere di maledizioni indicibili, mentre mostro orribili diventino le figure più benevole. La prima favola di tutta l’opera racchiude al meglio questo principio parlando un orco, l’“uerco”, alquanto singolare.

Prima di cominciare vogliamo ricordare che questo è solo un riassunto dell’opera originale. Pertanto consigliamo vivamente di recuperare il testo originale della favola per godere appieno di espressioni e passaggi che per sintesi trascureremo.

La storia ebbe inizio col giovane napoletano, Antuono. Non era molto sveglio e piuttosto sfaticato, non riusciva a trovare un lavoro ne a fare qualcosa di buono nella sua vita. Una croce per la povera madre che doveva lavorare giorno e notte per tirare avanti. Così, un bel giorno, la donna decise di dare una bella lezione al figlio e dopo avergli fatto una lavata di capo ed una sonora legnata decise di cacciarlo fuori di casa.

Antuono, non sapendo più cosa fare, iniziò a vagabondare e, nel suo errare, arrivò alle pendici del Vesuvio. Qui incappò in una creatura mostruosa, un orco orribile, dai denti aguzzi, che sedeva su una roccia. Una qualunque persona sana di mente e responsabile sarebbe fuggita, ma il nostro giovane non era nessuna di queste cose e diede a parlare alla creatura, anzi, si lamentò delle sue sventure familiari.

Il mostro, sentendo della disgrazia del ragazzo, si mosse a pietà e gli propose di ospitarlo: in cambio Antuono sarebbe stato al suo servizio per tutta la vita. Il giovane acconsentì sperando almeno in un tetto ed un pasto qualunque, ma quello che trovò entrando nella caverna dell’orco andava molto oltre le sue aspettative: l’interno di quell’antro all’apparenza scuro era molto più simile ad una reggia, ricolma di ricchezze di ogni tipo e prelibatezze che lo chiamavano da ogni piatto.

Così Antuono visse felicemente al servizio dell’orco, ma, passati due anni, gli venne nostalgia di casa. Il mostro, vedendolo infelice, gli concesse un giorno libero per andare a trovare la madre. Prima che partisse gli consegnò un asino per alleggerirgli il viaggio, ma raccomandandogli di non dire mai alla bestia le parole “arre, cacauro”.

Quando l’orco e la sua casa furono lontani, però, l’irresponsabile giovane provò a pronunciare la frase proibita: nemmeno il tempo di aprir bocca che l’asino iniziò a defecare, ma, al posto degli escrementi dal suo corpo fuoriuscivano oro e pietre preziose. Antuono felicissimo raccolse subito i preziosi bisogni in una saccoccia e si recò alla più vicina locanda per cenare e dormire grazie alle sue nuove finanze.

Bevve e mangiò a più non posso e, quando l’oste chiese il pagamento rimase sconvolto da quelle ricchezze tanto inaspettate. Quindi, curioso, chiese al giovane come se le fosse procurate. Antuono, innocente e sprovveduto, raccontò subito dell’asino miracoloso e della parola magica, poi si appisolò per il troppo vino. Incredulo per una simile storia, l’oste chiamò la moglie e andò a provare se fosse vera la storia. Quando si accorse del potere dell’asino, ovviamente, sentì il bisogno di sottrarlo a quel sempliciotto e, nottetempo, sostituì l’animale con un altro.

Al mattino Antuono ripartì in groppa al nuovo asino senza accorgersi della differenza. Trottò a casa dalla madre, spalancò la porta ed ordinò alla donna di mettere a terra tutte le stoffe di casa, con le quali avrebbe dovuto raccogliere una ricchezza inimmaginabile. La madre, fiduciosa, obbedì. L’asino fu posto sul corredo buono della donna, ma, quando Antuono esclamò “Arre, cacauro” la bestia iniziò a defecare… ma, in questo caso, gli escrementi erano veri. Ovviamente il ragazzo fu cacciato di nuovo e tornò dall’orco povero e colpevole, dove ricevette un’altra sonora strigliata.

Perdonato, Antuono trascorse un altro anno dal suo datore di lavoro, ma dopo un po’ gli tornò la nostalgia. Anche in questo caso l’orco gli concesse un giorno libero ed anche stavolta gli consegnò un dono, ma specificando che fosse per la povera madre del giovane. Si trattava di un fazzoletto ed, anche in questo caso, l’orco raccomandò di non dire le parole “aprete e serrate tovagliulo” prima che fosse al sicuro a casa.

Ovviamente, appena lontano dall’orco Antuono provò subito le parole magiche: il fazzoletto si aprì e da esso fuoriuscirono tantissime stoffe pregiate, di gran lusso. Richiuse con “serrate” e corse a casa, ma prima si fermò alla solita locanda. Come prima cosa diede il fazzoletto all’oste raccomandandogli di non usare le parole “aprete e serrate tovagliulo” per nessuna ragione. L’uomo, ben ricordando la fortuna dell’asino, sostituì direttamente il fazzoletto con un altro senza neanche provare.

Quando il giovane arrivò a casa il mattino dopo la scena fu molto simile a quella dell’asino, ma fortunatamente senza escrementi. Tornò nuovamente sconfitto dall’orco, maledicendo l’oste truffatore e la sua stupidità. Perdonato ancora, trascorse altro tempo e, come ormai di consueto, gli venne il desiderio di tornare a casa.

Questa volta l’orco fu ben attento nella ramanzina e lo stesso Antuono assicurò di non essere più un ragazzino e che non si sarebbe fatto fregare nuovamente. Il mostro gli consegnò, questa volta, una mazza, raccomandandogli di non dire mai “auzate mazza” o “corcate mazza”. Quando, anche stavolta, Antuono trasgredì l’ordine dicendo “auzate mazza”, però, il bastone si sollevò in aria ed inizio a percuoterlo con forza, fino a quando non disse tremante “corcate mazza”.

Dopo la scossa Antuono riuscì a realizzare che quello era proprio il modo migliore di vendicarsi dell’oste e recuperare quanto aveva perduto. Si recò ancora una volta alla taverna e subito consegnò il bastone all’uomo raccomandandogli di non usare le parole magiche “auzate mazza”… senza dire l’altra formula. Quando l’oste provò pregustando altre ricchezze la mazza si sollevò e iniziò a colpirlo senza fermarsi. Chiamò in soccorso la moglie, ma l’oggetto magico iniziò solo a colpire entrambi.

Stremati i due coniugi si recarono da Antuono supplicandolo di far cessare l’incantesimo. Il giovane acconsentì, ma a patto che loro restituissero asino, fazzoletto e tutte le ricchezze ottenute grazie a lui. A malincuore, per salvarsi la vita, acconsentirono ed il ragazzo fece “corcare” la mazza. Tornò quindi a casa da sua madre carico di ricchezze e ne lui, ne lei, patirono più la fame e dovettero lavorare un solo giorno ancora.

La morale con cui si chiude la favola originale è un detto ancora molto diffuso nella lingua napoletana: “pazz’ e criatur’ dio l’aiuta”. Il senso è che la fortuna può colpire tutti, anche uno spiantato come Antuono che non fa nulla per attirarsela. Altra morale è che l’apparenza spesso inganna e per citare Basile “l’orco aveva una brutta faccia, ma un bel cuore”. Infine che anche una zucca vuota può imparare dai proprio errori… magari dopo aver subito una bella bastonatura.


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