Alla scoperta delle grotte di via Posillipo 228, le cave di tufo dimenticate di Napoli


Cave di tufo, tracce di archeologia industriale e statue di una vecchia fonderia artistica. A poche centinaia di metri da uno degli scorci panoramici più suggestivi di Napoli – il Belvedere Lina Mangiacapre – c’è un immenso complesso di cave di tufo, pressoché ignoto ai più. Sono le grotte di via Posillipo 228, uno scrigno negato e violato, abbandonato com’è da cittadinanza e istituzioni, nonostante le preziose tracce storiche custodite al suo interno.

Il sito, compreso tra piazza San Luigi e l’ospedale Pausilipon, appare come una fenditura nel cuore della collina di Posillipo. Fulcro del complesso è l’ampio e luminoso impluvio centrale, un’agorà naturale dalla quale dipartono quattro cavità di tufo, alte fino a 33 metri e interconnesse da un intricato complesso di tunnel e cunicoli. Il sito ha un’area di 4.720 metri quadrati e risale all’epoca romana. Tali cavità, infatti, sono il risultato dell’estrazione del tufo.

«Sapete come facevano i romani a spaccare il tufo?» domanda uno dei nostri accompagnatori prima di dare inizio alla visita. «Con l’acqua e il legno. Prendevano dei grossi tronchi, li bagnavano e li spingevano nel tufo. Così facendo l’acqua dilatava il legno che a sua volta spaccava la roccia tufacea». Già, il tufo, alla cui abbondanza è legato il destino di Napoli.

«Quando gli americani arrivarono in Italia – continua la nostra guida – si chiesero come avessero fatto le costruzioni romane a resistere per oltre 2000 anni. Per rispondere a questa domanda, gli ingegneri statunitensi presero a studiare la composizione chimica delle malte usate in antichità. Quello che scoprirono fu sorprendente: i leganti impiegati presentavano delle proprietà tali da garantire un costante e duraturo rafforzamento. Queste malte, insomma, non degradavano con il passare degli anni, al contrario: si rafforzavano».

«Nonostante tali studi – conclude – non si pensò mai di ripristinare le malte antiche, perché le lobby del cemento spingevano per l’utilizzo del loro prodotto. Un vero e proprio peccato, considerando che ogni cento anni il cemento degrada e quindi tutto quello che edifichiamo con questo materiale è destinato ad essere ricostruito».

Essendo a tutti gli effetti un “solco” nella collina posillipina, l’unico modo per accedere al sito è attraversando una galleria, serrata da un’alta inferriata protetta da due solidi catenacci. Le sbarre sono sporche e incrostate di ruggine, sporcizia e piume di colombi. Munito di guanti, il nostro accompagnatore cerca di far entrare la chiave in uno dei lucchetti. Spinge, ma c’è poco da fare, la chiave non vuole saperne di entrare.

«L’ultima volta che abbiamo aperto questo cancello è stato sei mesi fa», ci informa. Non deve essere nuovo a questa difficoltà, perché ha con sé una bottiglietta di svitol che utilizza per lubrificare i lucchetti. L’operazione non è semplice, ma i gesti decisi del nostro accompagnatore ci rincuorano sul buon esito dell’impresa. Dieci minuti dopo l’inferriata è aperta e possiamo finalmente incamminarci nella grotta, la cui forma evoca immediatamente le due più celebri gallerie partenopee: la Grotta di Seiano e la Crypta Neapolitana.

La galleria d’ingresso. Foto: Marco Ciotola.

La galleria è buia, umida, ventilata e con un pavimento rivestito da una spessa coltre di polvere. «E’ polvere di tufo» ci informa nuovamente la nostra guida. «E’ molto sottile e si attacca alle scarpe in maniera indissolubile». Fortunatamente siamo muniti di vecchie scarpe da trekking e gli effetti permanenti della polvere di tufo non ci spaventano.

Appena messo piede nella galleria, siamo attratti dal forte chiarore che si intravede in lontananza. Per qualche istante, il contrasto tra il buio e la luce ci disorienta, distraendoci dall’osservazione delle prime testimonianze della storia del luogo. Lungo le pareti di tufo, infatti, pendono i cavi di un impianto elettrico dei primi anni del ‘900 con supporti per l’isolamento e lampioni in lamiera porcellanata. Degli impianti analoghi sono visibili in altri siti sotterranei napoletani, come il Tunnel borbonico o la Napoli Sotterranea dei Quartieri Spagnoli.

Particolare del sistema elettrico. Foto: Marco Ciotola.

La cavità confluisce nell’impluvio centrale mediante due braccia. Nel primo osserviamo un ammasso di materiale edile (frammenti di vecchie ante e finestre), le rimanenze di uno spogliatoio per operai e una Fiat Cinquecento abbandonata lì da chissà chi. Ma è il secondo braccio che desta la nostra attenzione.

Il primo braccio, rimanenze di uno spogliatoio per operai e una Fiat 500. Foto: Marco Ciotola.

Ad attirarci è uno strano oggetto indistinto di colore bianco. Ci avviciniamo: è la statua di un angelo. Alla scultura manca una mano mentre un braccio è spezzato, riverso a terra con l’indice che sembra indicare chissà cosa. Seguiamo con lo sguardo il punto indicato, ma non c’è niente: solo un ammasso di sterpaglie. L’angelo ha un’ala sbeccata e lo sguardo malinconico, come la costruzione in blocchi di tufo alla cui porta d’ingresso è posta la statua. La porta è chiusa e non cerchiamo di aprirla, per un eccesso di reverenza nei confronti dell’angelo.

Il secondo braccio, statua dell’angelo. Foto: Marco Ciotola.

Poco più avanti notiamo altre due statue, anch’esse poste a guardia di una porta, questa volta aperta. Sono due leoni. Uno se ne sta in posizione d’osservazione, con atteggiamento fiero e severo, come se assolvesse con rigore alla strenua difesa del proprio territorio. Mentre l’altro è sgraziatamente riversato su un mucchio di mattoni. Il contrasto tra il regale portamento del felino e la malconcia posizione in cui è rovesciato, suscita non poco imbarazzo.

Il secondo braccio, statue leoni. Foto: Marco Ciotola.

 

Panoramica del secondo braccio. Foto: Marco Ciotola.

Un angelo e due leoni, fatti i dovuti ossequi ai tre guardiani del luogo, possiamo finalmente volgere lo sguardo all’atrio centrale. Quello che vediamo ci lascia senza fiato: una rotonda naturale in tinte gialle (tufo) e verdi (la vegetazione spontanea), un’affascinante agorà naturale dalla quale dipartono quattro cave di tufo dalla tipica forma arcata. L’impianto del sito presenta un assetto perfettamente urbanistico, come una piazza centrale dalla quale si ramificano e convengono quattro arterie viarie.

L’impluvio centrale. Foto: Marco Ciotola.

«Questo piazzale – ci dice nuovamente uno dei nostri accompagnatori – è stato usato come fabbrica bellica e spolettificio. Sopra di noi, infatti, ci sono due appostamenti per le mitragliatrici. Per anni questo è stato un luogo riservato perché destinato alle attività belliche».

Nel 1942, infatti, le cavità furono acquistate dalla SANIB (Società Anonima Napoletana Industrie Belliche) che convertì le antiche cavità destinate all’attività estrattiva in una fabbrica bellica. L’anno successivo subentrò la Società Anonima Napoletana Industria Meccanica (SANIM) che vi installò una fabbrica impegnata nella produzione di macchinari, navi e galleggianti, anche su commesse del Ministero dell’Industria.

In seguito, dal 1955 al 1961, fu la Compagnia Italiana Dragaggio ad occupare le cave, che le utilizzò per la costruzione di draghe industriali escavatrici. Infine, dagli anni ’60 fino al 2006, le cave ospitarono un deposito del Comune di Napoli e una fonderia artistica. Quest’ultima destinazione spiega la presenza delle tre statue descritte poc’anzi.

«Quando la fonderia artistica se n’è andata – continua la nostra guida – hanno lasciato una quantità incredibile di cotte e stampe, soprattutto quelle difettose. Per questo ci sono frammenti di statue dappertutto».

Ci inoltriamo nella cavità che ospitava la fonderia. Uno ad uno attraversiamo tutti i suoi ambienti, facendo attenzione a dove poggiamo i piedi, perché l’edificio è pericolante. Ciò che resta del pavimento, infatti, è pieno di sterpaglie e di detriti precipitati dal soffitto ai quali si aggiungono anche i cavi elettrici e le mensole di ferro cadute dalle pareti.

Fonderia artistica, ingresso. Foto: Marco Ciotola.

Ci colpisce il silenzio del luogo, gli unici suoni sono quelli prodotti dai nostri passi e dal lontano cinguettio degli uccelli. D’un tratto siamo inspiegabilmente attratti da un calendario fissato ad una parete. Ci colpisce il livello di incrostazione dei suoi fogli, che negli anni hanno assorbito l’umidità, la polvere e la muffa delle pareti. Non riusciamo a distinguere l’anno del calendario. Tale l’impossibilità ci offre l’esatta percezione del luogo, nel quale il tempo sembra essersi stagnato, dileguandosi da ogni “prima” e “dopo”.

Fonderia artistica, particolare del calendario. Foto: Marco Ciotola.

Tra gli ambienti della fonderia spicca l’officina nella quale si realizzavano le statue. Sui muri ci sono molti cartelli che presentano avvertimenti come “è obbligatorio proteggere gli occhi e le vie respiratorie”, “è vietato mangiare e bere” oppure “velenoso”, per via delle vernici e tinte tossiche che qui si utilizzavano. Ciò spiega anche la presenza di alcuni aspiratori in ferro che incanalavano l’aria tossica fuori dall’officina. Oltre a ciò, notiamo anche i forni e i crogioli per la fusione delle statue.

Fonderia artistica, particolare del cartello “è obbligatorio proteggere gli occhi”. Foto: Marco Ciotola.

 

Fonderia artistica, aspiratori. Foto: Marco Ciotola.

 

Fonderia artistica, stanza delle vernici. Foto: Marco Ciotola.

 

Fonderia artistica, forno e crogiolo per la fusione. Foto: Marco Ciotola.

La fonderia era provvista di un’area espositiva, l’unica aperta al pubblico, dove gli acquirenti potevano osservare le statue e gli altri manufatti artistici qui prodotti. «Questa galleria – ci informa nuovamente la nostra guida – si spacciava per essere la fonderia di Vincenzo Gemito. Aveva molte commesse dall’estero, soprattutto dall’America».

Terminata la visita alla fonderia, ci incamminiamo verso una seconda cavità. In questa visitiamo un edificio in cemento armato che un tempo ospitava la casa del guardiano e gli spogliatoi degli operai dell’industria meccanica. Successivamente il luogo fu convertito in un deposito del comune di Napoli. La struttura, di due piani, è perfettamente incastrata tra le pareti della cava di tufo.

Ex deposito comune di Napoli. Foto: Marco Ciotola.

Appena superata la porta d’ingresso, notiamo una scala che conduce al primo piano, ci camminiamo con cautela, perché è instabile. Lungo il suo percorso, la scala raggiunge la facciata posteriore dell’edificio che affaccia all’interno della cavità. Nel salirla, si ha l’impressione di essere a strapiombo su un precipizio di tufo.

Ex deposito comune di Napoli, scala per il secondo piano. Foto: Marco Ciotola.

 

Ex deposito comune di Napoli, la cavità vista dalla scala. Foto: Marco Ciotola.

 

Ex deposito comune di Napoli, la cavità. Foto: Marco Ciotola.

Il secondo piano ospita gli spogliatoi e i bagni della vecchia fabbrica. In molti punti il soffitto è crollato, lasciando degli squarci aperti sulla volta della cavità. La sensazione di essere circondati dal tufo si fa sempre più insistente.

Ex deposito comune di Napoli, i vecchi spogliatoi della fabbrica. Foto: Marco Ciotola.

 

Ex deposito comune di Napoli, apertura nel soffitto con vista sulla cava. Foto: Marco Ciotola.

 

Ex deposito comune di Napoli, facciata posteriore. Foto: Marco Ciotola.

Terminata la visita all’edificio, ci inoltriamo nel resto della cavità. Ancora una volta siamo sorpresi dalla sua imponenza e tra le venature del tufo lasciamo spazio alla fantasia, nella speranza di scorgervi chissà quali figure o tracce di un passato remoto.

Camminando, ci imbattiamo in due ambienti singolari. «Queste sono due camere antigas» ci avvisa nuovamente il nostro accompagnatore. «Furono realizzate nella seconda guerra mondiale per proteggere la popolazione da eventuali attacchi con bombe caricate con gas asfissianti. Al loro interno, infatti, ci sono dei camini che prelevano l’aria portandola fuori, verso l’alto».

Camera antigas. Foto: Marco Ciotola.

Ma gli aneddoti bellici non finiscono qui. Poco più avanti, infatti, la nostra guida ci racconta qualcosa di ancor più eclatante: «Qui erano parcheggiate le automobili utilizzate da Hitler nella sua visita a Napoli nel 1938. Il corteo partì dalla stazione centrale e arrivò fino a piazza del Plebiscito passando per il lungomare. In tutto, abbiamo trovato tre vetture».

La nostra visita prosegue ancora per qualche minuto, in silenzio, per contemplare ancora una volta la bellezza delle cavità. Ma la quiete viene interrotta improvvisamente dal nostro accompagnatore che, per l’ultima volta, ci invita a prestare attenzione a qualcosa di prezioso. Le sue parole sono semplici e decise: «Restate fermi qui e alzate lo sguardo».

Seguiamo il consiglio e ci voltiamo verso il luogo da lui indicato: un punto in cui la luce proveniente dall’impluvio centrale fende il buio della cavità. E quel frangente, sorto dall’incontro di chiarore e oscurità, sembra riflettersi nell’intera cavità, con un riverbero che tinge la galleria di una tinta irreale, quasi fiabesca.

Suggestioni di tufo. Foto: Marco Ciotola.

La cavità sembra aver assunto una corposità onirica, quasi sacrale. Non faccio in tempo a pensare ciò, che la guida sembra intuire il mio pensiero: «Sembra una cattedrale gotica, non è vero? Conosco questo posto da quarant’anni e ogni volta mi emoziono nel contemplare la cavità da questo punto», e la commozione è autentica. Sarebbe impossibile tentare di descriverla.

Al termine della visita non possiamo che porci una domanda semplice e amarissima per via della sua sconfortante irrimediabilità: com’è possibile che un luogo del genere sia abbandonato e dimenticato? E l’amarezza diventa tanto più grande al pensiero che l’intera area delle cavità è in vendita da anni, ma nessun imprenditore né acquirente sembrerebbe essere interessato a far rivivere un luogo di tale splendore.

Per maggiori informazioni sulle grotte di via Posillipo 228, rimandiamo a questo link.


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