Ecco come Garibaldi e famiglia rinnegarono l’Italia, combattendo coi briganti
Set 01, 2014 - Francesco Pipitone
Giuseppe Garibaldi con il tricolore
“… il felice regno (delle due Sicilie). Felice! poteva chiamarsi, giacché con tutti i vizi, di cui era incancrenito, il suo governo occupavasi almeno che non morissero di fame i sudditi … Si sa quanto solerte era il governo borbonico per far mangiar a buon mercato il pane ed i maccheroni … occupazione che disturba poco la digestione di coteste cime che governano l’Italia. Giù il cappello però, esse le cime hanno fatto l’Italia ed avranno fra giorni una statua in Campidoglio, non so di che roba”.
Sono queste parole scritte dal pugno di Giuseppe Garibaldi in persona, scritto nell’arco di tre anni, dal 1870 al 1872, nel testo intitolato “I Mille” (è disponibile gratuitamente cliccando QUI). In questa opera egli ammette di aver scritto le sue precedenti memorie in modo troppo romanzato, rimproverandosi di non aver steso un’opera valida dal punto di vista storiografico, quindi utile ai posteri, una mancanza cui vuole porre riparo proprio attraverso questo libro. In tale volume Garibaldi si scaglia ripetutamente contro Vittorio Emanuele II e il Governo, che egli, significativamente, definisce sabaudi piuttosto che italiani, e ciò perché si è reso conto che dietro l’appoggio di Cavour e del sovrano piemontese all’azione dei Mille non vi erano gli ideali, bensì calcoli e convenienze materiali. Egli sostanzialmente si pente di aver messo da parte la diffidenza verso i sabaudi, con cui non era mai andato d’accordo che non gli erano mai piaciuti, si pente di aver messo da parte il suo essere repubblicano, per consegnare il Mezzogiorno al Piemonte, per “aver unito l’Italia con l’aiuto del diavolo” (in questo caso per “diavolo” si potrebbe intendere, oltre ai piemontesi, anche tutta quella schiera di uomini corrotti e poco raccomandabili che favorirono la conquista delle Due Sicilie, quali ad esempio Liborio Romano, che cercò l’appoggio della camorra e dandole un potere che ancora oggi soffoca la Campania, oltre alle altre organizzazioni criminali). Prova della scarsa affinità tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II è una lettera tra costui e Napoleone III, dove il piemontese ribadisce il fastidio che gli dà Garibaldi, che egli arresterebbe per la terza volta se non fosse per una crisi di Governo. Giuseppe Garibaldi, dal canto suo, sottolinea la codardia e la corruzione degli uomini al servizio di Vittorio Emanuele II e Cavour, attenti a quanto facevano i Mille solo per prendersene i meriti.
In merito ai Siciliani ed ai Napoletani (termine con cui intende gli abitanti del Mezzogiorno intero) il capo dei Mille afferma: “E questo governo sedicente riparatore, fa egli meglio degli altri? Egli poteva farlo! doveva farlo! Ma che! nemmen per sogno; coteste ardenti e buone popolazioni che con tanto entusiasmo avean salutato il giorno del risorgimento e dell’aggregazione alle sorelle italiane, sono oggi….. sì, oggi ridotte a maledire coloro che con tanta gioia un giorno chiamaron liberatori!“.
Si tratta dello stesso concetto espresso qualche anno prima, in una lettera all’amica Adelaide Cairoli: “Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho la coscienza di non aver fatto del male. Nonostante ciò non rifarei la via dell’Italia Meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi là cagionato solo squallore e suscitato solo odio”. Un vero e proprio pentimento, l’enorme assunzione di una enorme responsabilità che gli pesava sull’animo, perché cosciente che invece che liberatore egli è stato una marionetta nelle mani di avidi soggiogatori
Forse, tuttavia, la circostanza più importante, e d’altra parte pochissimo nota, è che un figlio di Giuseppe Garibaldi, Ricciotti, dal 1865 combatté al fianco dei briganti per scacciare i Piemontesi e formare la Repubblica, tentando in questa maniera di riscattare la figura del padre di fronte ai posteri. Un fatto che ha raccontato a Porta a Porta Anita Garibaldi, della quale Ricciotti è il nonno e, dunque, Giuseppe è il bisnonno, e che dichiara di possedere i documenti a prova delle sue affermazioni.
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