Autostrade per l’Italia: tre ostacoli per non revocare la concessione


Sembra non trovare pace la querelle di fine anno innescata dall’articolo del decreto Milleproroghe sulla modifica dei contratti dei concessionari autostradali. Al di là delle polemiche politiche interne alla maggioranza, con Italia viva fermamente contraria a un provvedimento che cambia in corsa contratti fissati da tempo tra lo Stato e alcune aziende, si stanno via via scoprendo una serie di ostacoli tecnici che potrebbero rendere la revoca delle concessioni un vero e proprio autogol per l’esecutivo, con gravi effetti anche sul bilancio pubblico, e quindi sulle tasche dei contribuenti.

Unione europea: rischio infrazione
La prima questione riguarda i rapporti con Bruxelles, con un precedente significativo. La Commissione Ue, dopo un tentativo del governo Prodi nel 2007 di modificare per legge le Convenzioni autostradali, aprì una procedura di infrazione evidenziando che i contratti non possono essere modificati senza un accordo delle parti. Fu lo stesso Premier a correre ai ripari, scrivendo all’allora commissario Ue Neelie Kros, nel tentativo di frenare la procedura e affermando che il governo aveva concordato con i concessionari autostradali un nuovo schema di contratto “idoneo a garantire quella certezza delle regole tariffarie che costituisce condizione essenziale per attrarre risorse private”. Era, di fatto, un passo indietro dell’esecutivo, che riconosceva l’impossibilità di cambiare delle regole in corsa. Nel 2008 (nel frattempo si era insediato il governo Berlusconi) l’allora Commissario Ue Charlie McCreevy scrisse una lettera al Premier sollecitandolo a chiudere la procedura di infrazione con una soluzione che chiarisse “il presupposto della non modificabilità, in via unilaterale, da parte dello Stato concedente, del regime tariffario per tutta la durata della concessione”. Berlusconi prese atto di questa posizione della Commissione Ue e diede seguito all’operatività delle Convenzioni autostradali, facendo così chiudere la procedura di infrazione.

Posti di lavoro persi e risparmi in fumo
Il secondo punto è invece relativo alla questione occupazionale, con 7.000 posti di lavoro a rischio. La revoca della concessione senza indennizzo impedirebbe infatti ad Autostrade per l’Italia (Aspi) di continuare a onorare il debito che ha contratto negli anni per realizzare investimenti in infrastrutture – che è pari a 10,8 miliardi di euro – con il conseguente fallimento della società. Questo comporterebbe anche la volatilizzazione dei risparmi investiti dagli italiani in azioni e obbligazioni della società. Sono circa 17.000 i piccoli risparmiatori che hanno sottoscritto almeno un’obbligazione di Aspi.

Credibilità internazionale
Il terzo problema, infine, riguarda la credibilità del Paese a livello internazionale e la sua capacità di attrarre capitali esteri. Un Paese che cambia le regole in corso d’opera e che quindi non offre la certezza del diritto, sostengono in coro tutti gli analisti di mercato, perderebbe ogni credibilità di fronte agli investitori internazionali. Tra l’altro, nel capitale di capitale di Autostrade per l’Italia sono rappresentati diversi grandi investitori internazionali, come il gruppo assicurativo tedesco Allianz (7%) e il fondo sovrano cinese Silk Road Fund (5% del capitale), oltre a quelli che hanno investito nella capogruppo Atlantia, come il fondo sovrano di Singapore GIC (8,1% del capitale) e numerosi altri investitori istituzionali internazionali, prevalentemente società di gestione di USA, Gran Bretagna, Francia, Germania e Australia. Un recente studio della società indipendente Brattle, reso noto dal Sole 24 Ore, ha dimostrato che il Milleproroghe rischia di creare un nuovo “caso Italia”. Nei principali Paesi europei infatti il valore di indennizzo in caso di revoca viene calcolato sulla base del valore di mercato di un bene, al pari di come funziona attualmente anche in Italia. L’art. 38 del Milleproroghe, voluto dal premier Conte e dal ministro De Micheli, scardina proprio questo principio condiviso a livello europeo, introducendo un regime fortemente peggiorativo per le concessionarie italiane. Cosa ne penseranno gli investitori esteri quando dovranno decidere i Paesi nei quali dirottare i propri capitali?


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