Va a togliere la colecisti e gli perforano l’intestino: Francesco muore, clinica nei guai


La perdita di un congiunto provoca sempre un dolore immenso. Se si aggiunge il sospetto di aver subito un danno da malasanità, disperazione e rabbia possono prendere il sopravvento. E diventa complicato darsi pace e accettare l’infausto destino. Passa il tempo. Si va alla ricerca di verità e giustizia, facendo di tutto per riavvolgere il nastro degli eventi e portare alla luce informazioni, fatti e, nella peggiore delle ipotesi, anche le colpe.

A quasi un anno di distanza dalla morte, la famiglia Ambrosino aspetta dal giudice del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere una sentenza che accerti se la morte di Francesco poteva scongiurarsi con una idonea condotta sanitaria rispetto a quanto documenti e cartelle cliniche facciano presagire. L’uomo aveva 70 anni, stimato professore di educazione fisica e vice preside del Liceo Scientifico Amaldi della città sammaritana. I suoi cari all’epoca dei fatti si sono trincerati in un rigoroso silenzio, troppo grande lo shock per presenziare in tivù e sui giornali.

Nel frattempo la macchina della giustizia sta facendo il suo corso e porterà ad un epilogo. L’accusa mossa alla clinica dove Francesco si è sottoposto ad un intervento chirurgico di asportazione della colecisti è quella di averlo condotto alla morte per un errore.

I FATTI 

Il 14 gennaio del 2020 Francesco Ambrosino si sottopone all’intervento di colecistectomia laparoscopica, la lisi delle aderenze e l’enterografia, come da lettura della cartella clinica. La sua anamesi patologica di cui i sanitari sono ampiamente a conoscenza, racconta di una diverticolite ed ipertensione arteriosa e che aveva subito un pregresso intervento di resezione del colon sinistro per diverticolosi complicata. Al termine dell’operazione il paziente riposa in degenza ma in poco tempo la situazione peggiora fino a divenire critica e irreversibile.

Il professore accusa fortissimi dolori all’addome e perdite di siero. Passano le ore e i giorni (ben 4 dall’intervento, senza aver effettuato indagini diagnostiche, ndr), quando al seguito di un ulteriore peggioramento del quadro clinico, Francesco viene trasferito all’ospedale civile di Piedimonte Matese con diagnosi di paziente non canalizzato. Siamo al 18 gennaio e sino al 6 marzo, giorno del decesso, l’uomo soffrirà le pene dell’inferno per gli atroci dolori. Come si evince dalla cartella redatta dalla clinica, nel corso dell’operazione viene provocata una perforazione che produrrà una conseguente infezione. A nulla servono gli sforzi dei sanitari dell’ospedale di Piedimonte. Francesco muore di shock multiorgano da perforazione intestinale. Un dramma che, forse, si poteva evitare.

LA BATTAGLIA LEGALE

Il fronte legale parte dal processo civile seguito dall’Avvocato Benito De Siero di Santa Maria Capua Vetere, esperto nella tutela del malato. Si punta a dimostrare la responsabilità piena della struttura: «Loro hanno annotato la perforazione provocata e si parla anche di una sutura. Ma quando viene dimesso addirittura scrivono che il paziente era in miglioramento. Ritenevano che per essere seguito avesse avuto bisogno di una struttura più idonea e scrivono che non aveva canalizzato. Ma il problema era un altro: a Piedimonte si accorgono della perforazione intestinale e subito riferiscono alla famiglia della gravità della situazione. Non si comprende il trasferimento presso il presidio ospedaliero di Piedimonte Matese che è rimasto con la qualifica di PSA anche dopo l’aggiornamento del piano regionale (dicembre 2018, ndr) di programmazione della rete ospedaliera mentre aveva promosso i presidi di Marcianise e Sessa Aurunca a DEA di primo livello. Nella diagnosi definitiva si conferma lo shock multiorgano da perforazione intestinale. Ritengo – sottolinea l’avvocato – che l’attesa sia stata eccessiva, dal giorno dell’operazione alla data del trasferimento è passato troppo tempo. Probabilmente determinante per l’esito tragico della vita di Francesco».

La storia giudiziaria potrebbe coinvolgere anche il penale con il medico operante nel mirino dei legali della vittima: «Stiamo aspettando il deposito della consulenza per comprendere se ci sono profili di responsabilità penale. Quello che può emergere è una condotta grave, imperizia, negligenza e imprudenza nella gestione del paziente tale da portare il medico ad un rinvio a giudizio. Per noi ci sono i profili riguardo alla tempistica, perché lo hanno tenuto 4 giorni, quando d’urgenza e d’emergenza potevano trasferirlo altrove».


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI