Storia e leggenda, ecco come sorse Chiesa di Santa Marta

Santa Marta e il mostro. Alatare con dipinto di Andrea e Nicola Vaccaro.


Marta viveva in un piccolo villaggio chiamato Betania, vicino Gerusalemme. Maria e Lazzaro erano i suoi fratelli e assieme conobbero un uomo straordinario, che cambiò la loro vita: egli era Gesù di Nazareth. Quanti insegnamenti diede loro il Cristo, e quanta grazia riversò sul fratello Lazzaro quando lo tirò via dalle braccia del sepolcro.
La leggenda vuole che, dopo la passione e la resurrezione di quello che si era rivelato più di un uomo, Marta, Maria e Lazzaro lasciassero la loro terra d’origine perché perseguitati: la loro destinazione era la Provenza. Quello che i tre fratelli avevano visto, ascoltato e vissuto non poteva rimanere taciuto, e così Marta e i suoi fratelli iniziarono una convinta opera di evangelizzazione in Francia.

Ma la tradizione si tinge di fiaba, e nella Provenza apparve un mostro. Una grotta del fiume Rodano partorì una creatura dalla testa di leone e il corpo di tartaruga spinata, una coda affilata come spada, zampe artigliate e squamate. La tradizione popolare ha contribuito a rendere questo gigante un vero orrore. Lo chiamavano il Tarasque e si narra che devastò tanti villaggi provenzali. Marta era impavida, la sua fede la rendeva forte anche al cospetto di quella mostruosità. Se San Giorgio sconfisse il drago combattendo, a Marta bastò ammansirlo con la grazia della preghiera. Ad ogni Ave Maria recitata, il Tarasque diventava sempre più piccolo fino a diventare una lucertola inoffensiva.
Il piccolo essere mostruoso fu condotto in una città che prese il nome di Tarascona, in memoria di quell’evento. Leggenda e storia si fusero per raccontare la vita di Santa Marta, come spesso accadeva nel medioevo.

Santa Marta e il mostro. Alatare con dipinto di Andrea e Nicola Vaccaro.

Santa Marta e il mostro. Altare con dipinto di Andrea e Nicola Vaccaro

Anno 1386: Margherita di Durazzo doveva affrontare un altro mostro, viscido come un serpente e non meno temibile del Tarasque. Il mostro si chiamava gioco di potere, e in gioco c’era un trono assai ambito. In quella data infatti, Margherita prese in reggenza il regno di Napoli e, se nelle fiabe diventar regina è la felice conclusione di mille traversie, nel suo caso nulla ci fu, di felice. Il marito di Margherita, Carlo di Durazzo, aveva strappato la corona alla regina Giovanna I d’Angiò diventando Carlo III di Napoli. Ma a Carlo non bastava, e decise di rivendicare a se anche l’Ungheria. Approfittando della morte di Luigi I d’Ungheria, si appropriò anche di quel trono. Elisabetta, la moglie di Luigi, assoldò dei sicari che avvelenarono l’ambizioso Carlo, nel 1386.

Alcuni cavalieri del re assassinato portarono la notizia a Napoli proprio mentre si festeggiava l’incoronazione di Carlo a re d’Ungheria. Per Margherita di Durazzo fu un duro colpo. La situazione era delicatissima e lei si sentiva nella pancia di quel famelico mostro che è la politica. Forte della parentela con la regina Giovanna I d’Angiò, poté prendere il trono in attesa della maggiore età del figlio Ladislao. Luigi d’Angiò di Francia, come lupo vorace, pretese il regno di Napoli e partì alla sua conquista insediandosi nella capitale. La guerra tra i fedeli a Margherita e le truppe di Luigi fu lunga, e nessuna battaglia sembrava decisiva. L’avversione del Papa Urbano VI e la sua scomunica alla regina peggiorarono la situazione.

Nemmeno Gaeta risultò essere un luogo sicuro perché, dove non arrivavano il fuoco e le fiamme della guerra, arrivava il sotterfugio. Il vescovo di Arles, Raimondo, fedele a Luigi, fu ospitato con cordialità presso la corte di Gaeta. Ma un coppiere, durante un convito, fu persuaso dal vescovo ad avvelenare il bicchiere di Ladislao, erede al trono di Napoli. Fortunatamente il veleno fu somministrato solo in piccole dosi, e il giovane re fu salvo, anche se soffrì di balbuzie tutta la vita. Margherita era allo stremo delle sue forze. I nervi iniziavano a cedere e non aiutò il lugubre dono dei cavalieri fedeli al consorte, gli stessi che portarono la notizia della morte di Carlo: le teste mozzate dei sicari regicidi.

La situazione si capovolse in favore di Margherita quando salì al soglio pontificio Bonifacio IX, che si schierò al fianco della causa della Regina. Ladislao, ormai adulto, in pochi anni riaffermò i suoi diritti al Trono d’Ungheria e nel 1399 rientrò a Napoli, da dove costringeva alla fuga Luigi d’Angiò.
Il mostro di Margherita era stato sconfitto e nel 1400 offrì come voto a Santa Marta una chiesa, proprio accanto a quella di Santa Chiara. L’edificio sacro fu affidato alla prestigiosa Confraternita dei discepoli di Santa Marta, i cui confratelli furono anche nobili, regnanti e vicerè della città di Napoli.

Nei prossimi articoli capiremo perchè l’assetto della chiesa attuale non è quello quattrocentesco, scopriremo i suoi tesori e un manoscritto molto interessante ritrovato al suo interno.

Questo articolo fa parte della rubrica sulle Chiese di Napoli .”Napoli, la città delle 500 cupole”.

 

Come arrivare alla Chiesa di Santa Marta


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