Signore e signori ecco a voi i taralli “nzogna e pepe” napoletani


… ‘E ffigliole, pe sottaviento,
mo se fanno na zuppetella
cu ‘e taralle ‘int’a ll’acqua ‘e mare.
L’acqua smòppeta, fragne e pare
ca ‘e mmanelle so’ tutte argiento…

Così recita la strofa di un’antica canzone del 1920, “Napule ca se ne va” di Murolo e Tagliaferri, in cui viene citata, con parole soavi e poetiche, una delizia indiscussa ed inimitabile del patrimonio culinario partenopeo: i taralli nzogna e pepe. Rotondeggianti, scuri, tempestati di mandorle, sono tipici dell’entroterra napoletano ed nalogamente a tante altre ricette tipiche napoletane, anch’essi sono nati per riciclare e non buttare via avanzi di determinati ingredienti.

In “Il ventre di Napoli“, di Matilde Serao, compare una dettagliata descrizione dei cosiddetti “fondaci”, ovvero le zone adiacenti al porto, dove vivevano i poveri perennemente affamati, fino a quando nel Settecento furono introdotti i taralli: i fornai non buttavano via nulla di nulla, utilizzavano fino alla fine anche lo sfriddo, cioè gli stralci di pasta lievitata in avanzo, a cui aggiungevano la “nzogna” ed il pepe in quantità ingenti. E le mandorle? Beh, furono aggiunte solo nell’ Ottocento. I taralli venivano serviti per lo più nelle panetterie, nei chioschi per strada (tuttora ci sono a Mergellina sul lungomare) ed non da meno nelle osterie con un bicchiere di vino non troppo pregiato per accompagnarli. Si inzuppavano nell’acqua di mare anticamente, “tradizione” giustamente perduta per ovvi motivi. Oggi viene degustato per lo più con la birra… è proprio il caso di dire che ‘a birra è ‘a morte d”o tarallo ! 

Ogni “tarallaro” doc portava con sé la sua cesta in spalla per vendere i taralli in strada ai passanti e non solo, gridando a gran voce “Taralle, taralle cavere!”. Attualmente non esiste più questa figura ma il sostantivo viene utilizzato per designare una persona che non ha molta voce in capitolo e deve sempre sottostare a mille cose e situazioni, senza tregua. Non a caso, si usa l’espressione “me pare ‘a sporta d”o tarallaro!”.

Taralli

Per quanto riguarda l’etimologia ed origine del nome, ci sono varie e diverse ipotesi: alcuni dicono che derivi dal francese “toral” essiccatoio ed altri dal latino “torrere”, che significa abbrustolire. Un’altra tesi fa riferimento alla particolare forma circolare: deriverebbe dunque dall’italico “tar” che signfica avvolgere o ancora dal francese antico “danal”m che vuol dire pane rotondo. L’ultima, considerata la più attendibile, è di deravzione greca, da “daratos”, che vuol dire sorta di pane.

Ecco la ricetta:

Ingredienti 

500 gr di farina

150 gr di nzogna (sugna)

1 cubetto di lievito di birra da 30 gr

200 gr di mandorle con buccia

2 cucchiaini di pepe nero

2 cucchiaini di sale

Procedimento

Sciogli il lievito con un dito d’acqua tiepida e aggiungilo a 100 gr. di farina, impasta, forma un piccolo panetto, incidilo a croce sulla superficie e mettilo a lievitare in una ciotola.
Quando avrà raddoppiato il volume, aggiungi il sale, il pepe, la sugna (così com’è senza scioglierla) il resto della farina e tanta acqua tiepida quanto basta per ottenere un bel panetto da lavorare sopra il piano di lavoro.
Lavoralo almeno per 10 minuti e poi stacca tanti pezzetti da formare dei bastoncini grossi come una matita, e lunghi circa 15 cm.
Unisci i bastoncini, attorcigliali su se stessi e uniscili a ciambella. Decorali con le mandorle e mettili a lievitare, quando avranno raddoppiato il volume infornali a 180° fino a cottura completata cioè quando saranno belli dorati.

Questi taralli si conservano per molti giorni se chiusi ermeticamente.
Fonte
www.itaralli.it


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