La Cella Zero, tutti i retroscena degli abusi a Poggioreale: libro dell’ex detenuto Ioia


Un viaggio dentro l’abisso di se stessi, delle proprie colpe, della propria interiorità amplificata dal silenzio forzato e dalla routine meccanica della cella di isolamento. Ma soprattutto la cronaca di un viaggio all’inferno, ogni girone portava il nome di uno dei padiglioni di Poggioreale: Roma, Torino, Salerno.

Ma la vera anticamera dell’inferno, quella dove ogni diritto era negato, dove la dignità di un detenuto veniva messa in stand-by dalla mano pesante e dallo strapotere arbitrario dei secondini, dove la nozione stessa di umanità perdeva di significato non aveva nome: era la cella zero. Sala d’attesa, area di passaggio di giorno, bunker di tortura di notte.

Una stanza vuota, dall’arredamento essenziale, imposte chiuse, un luogo sicuro dove violenze e soprusi di ogni tipo non erano documentati: non si contano più gli ex detenuti che hanno raccontato di esservi stati trascinati per esservi picchiati a sangue dagli agenti di polizia penitenziaria, qualcuno ci è morto, altri ne sono usciti cambiati per sempre. Pietro Ioia, ex spacciatore di Forcella, 22 anni di carcere scontati in 20 istituti diversi, è partito dalla sua esperienza personale per raccontare in un libro-verità, La Cella Zero appunto, i retroscena fino ad ora appena sussurrati, sconosciuti a molti, noti ad altri, complici silenziosi, chi per omertà chi per connivenza, della detenzione a Poggioreale.

L’autore, ospite della Casa del Popolo di Vico Abolitomonte, ha incontrato pubblico e attivisti nel tardo pomeriggio di giovedì 4 gennaio: la conferenza stampa sul libro è sfociata presto in una lunga chiacchierata in cui Pietro ha raccontato con semplicità, con ironia quasi, un’annedotica agghiacciante che riassume la prassi della detenzione a Poggioreale negli anni 80 e 90.

Il sovraffollamento del carcere, 3000 detenuti stipati in un edificio che ne può ospitare al massimo la metà, aveva creato nella direzione e nei secondini la convinzione che l’unica via per mantenere il controllo del carcere fosse usare una linea dura con tutti i detenuti: l’atmosfera da lager si accentuò con il trasferimento in un altro istituto del superboss Cutolo, abbastanza potente da rappresentare per i detenuti una garanzia anche dietro le sbarre.

Ma per riportare l’ordine dopo la sua partenza punizioni, abusi di potere e angherie di ogni genere diventarono il pane quotidiano per i detenuti, già costretti in condizioni di vita disumane: letti costretti in celle anguste e non a norma, pasti freddi e spesso miseri a causa dei fondi insufficienti per il sovraffollamento, acqua quasi mai calda. A questo si aggiunsero gli abusi sistematici dei secondini, scatenati dai motivi più futili, che nella cella zero, dove tutto passava sotto silenzio, diventavano vere e proprie torture: Pietro stesso ne ha sperimentato l’umiliazione e il terrore solo per un mazzo di carte.

Picchiato a sangue, in un’occasione le minacce furono addirittura supportate dalla presenza di un cappio, a testimonianza dell’assoluto potere e della sconvolgente corruzione della polizia penitenziaria. In molti tentarono il suicidio, come il giovane detenuto convocato senza motivo ogni sera e picchiato senza pietà. Per i poliziotti, essendo un ladro di automobili, diventò il capro espiatorio su cui scaricare un tardivo sentimento di vendetta per furti subiti in passato. Piccolo Boss, Hitler, Il Romano e le loro angherie sono stati ricordati anche dai numerosi ex detenuti intervenuti all’incontro. Persino tenere le mani in tasca o non replicare a un saluto erano il pretesto per massacrare i detenuti senza pietà e rispedirli in cella senza alcuna conseguenza.

Il terrore da dittatura garantiva il quieto vivere del carcere, attirando sulla direzione l’ammirazione degli altri penitenziari. In pochi al di fuori delle sue mura sapevano che il prezzo pagato dai detenuti fosse così alto, chi sapeva ha sempre taciuto. All’uscita dal carcere Pietro ha consegnato nomi e testimonianze ad un magistrato: è scattata una maxi indagine che ha portato al fermo e all’allontanamento di 23 persone, incluso il medico che sistematicamente liquidava le contusioni dei carcerati come cadute dalle scale. Prigioniera della paura la stragrande maggioranza dei detenuti non aveva mai denunciato e se l’ha fatto rivolgendosi alla garante dei diritti dei detenuti è stato in forma anonima: ma l’esempio di Pietro, nel frattempo diventato un uomo nuovo e un punto di riferimento con la sua associazione EX DON- Detenuti organizzati Napoletani, ha incoraggiato molti a cercare giustizia.

Grazie a loro e a Pietro oggi la cella zero non esiste più: i vertici del carcere sono stati sostituiti, gli indagati rinviati a giudizio e allontanati e il direttore Antonio Fullone, autore tra l’altro della prefazione del volume, ha inaugurato un nuovo cursus per il penitenziario: con lo spostamento di mille detenuti, l’introduzione della socialità e dei colloqui a tavolino ha restituito dignità alla carcerazione. Manganellate e soprusi non sono più la regola aurea di Poggioreale con Pietro che continua a vigilare dando voce ai detenuti: provvede a far pubblicare ogni singola lettera di protesta e denunzia di violenza che arriva da dietro le sbarre, il suo impegno coi Radicali lo ha ammesso alle visite ispettive grazie alle quali può periodicamente controllare con mano il trattamento dei detenuti.

Sta girando L’Italia con uno spettacolo di Antonio Moccia che porta lo stesso titolo del libro, nel quale interpreta Melella, l’ex guardia più sadica di Poggioreale, che non risparmiò neppure un detenuto paralitico, colpito sulla sua sedia a rotelle. Non è escluso che diventi un film: nel frattempo è da vedere il cortometraggio La Cella Zero e i reportage realizzati da Pietro con il giornalista partenopeo Salvatore Esposito: tra questi la testimonianza dei familiari di Federico Perna, il giovane detenuto mai curato a Poggioreale, la cui autopsia ha rivelato tutti i segni delle atroci violenze subite in galera, che denunciò in una lettera a sua madre.

Con la sua rete di attivisti adesso si batte per l’istituzione del reato di tortura, non contemplato dal nostro codice: gli unici capi di imputazione per i carnefici di Poggioreale restano violenza privata e abuso di potere, reati dalla prescrizione molto breve, che molto probabilmente, risparmierà loro la galera. Nel frattempo Ioia continua a promuovere il reinserimento al lavoro degli ex detenuti e devolve parte dei proventi del libro alla spesa per il carcere, dove spazzolini, sapone e dentifricio non sono mai puntuali come dovrebbero, contribuendo a negare i bisogni primari di chi, pur avendo sbagliato, ha il diritto di conservare la propria dignità.

Un libro da leggere, una testimonianza reale lontana dai luoghi comuni, che non si stanca di ribadire soprattutto nelle scuole: “I ragazzi hanno bisogno di conoscere un punto di vista diverso dalla televisione dei guappi di cartone , un modo di raccontare la camorra che tra l’altro non contempla nessuna divisa, nè degna nè indegna. La principale causa delle recidive è il sovraffollamento: chi entra per reati gravi non dovrebbe capitare in cella con professionisti del crimine, gente che è dentro per dieci o quindici anni. Diventa difficile per un giovane, che può sempre salvarsi, reinserirsi se ha avuto modo di apprendere certe cose“.

A chi gli ha chiesto come ha superato la rabbia per le ingiustizie viste e subite, come abbia superato la zavorra di venti anni di carcere, gli ultimi dei quali arrivati per un cavillo inerente una vecchia condanna e scontati dopo un periodo di lunga libertà in isolamento, per evitare che la fama di attivista che ormai lo precedeva potesse incoraggiare i detenuti a ribellarsi, ha risposto così: “All’inizio ero arrabbiato, certo. Poi c’era cosi tanto da fare. Alla fine essere stato utile a qualcuno, il fatto che qualcosa sia cambiato mi ripaga di tutto“.


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