Alla scoperta degli ex Padiglioni Africani della Mostra d’Oltremare: il Cubo d’Oro e il Laghetto di Fasilides


L’Africa negata della Mostra d’Oltremare. Il Cubo d’Oro e il Laghetto di Fasilides rappresentano due dei luoghi più suggestivi del polo fieristico di Fuorigrotta, nonostante ciò ancora in molti ne ignorano la storia e il significato. Il Cubo d’oro e il Laghetto di Fasilides, infatti, figurano tra le poche – ma preziosissime – testimonianze di un padiglione che nel 1940, anno di inaugurazione della “Mostra Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare”, offriva ai visitatori uno spaccato storico e antropologico dell’Africa Orientale Italiana: Eritrea, Somalia ed Etiopia.

Nel nostro approfondimento dedicato al Padiglione Libia abbiamo già avuto modo di descrivere il particolare rapporto che lega la Mostra con il continente africano. In questo nuovo articolo concluderemo la disamina allora iniziata, descrivendo gli altri padiglioni della Mostra dedicati all’Africa. In particolar modo, analizzeremo tre strategiche esposizioni della Triennale d’Oltremare: la Mostra del Lavoro Italiano in Africa, la Mostra dell’Africa Orientale e il settore etnografico con i suoi villaggi indigeni.

La Mostra del Lavoro Italiano in Africa

Il padiglione del Lavoro Italiano in Africa sorgeva nell’area oggi occupata dal Padiglione 5. Progettato dall’architetto e urbanista Gherardo Bosio (che realizzò anche il vicino Padiglione Albania), l’edificio presentava uno stile austero che lo differenziava notevolmente dalle architetture esotiche degli altri padiglioni africani progettati, come vedremo, sul modello di alcune specifiche architetture del Corno d’Africa.

Padiglione del Lavoro Italiano in Africa. Foto: Emporium, Vol. XCII, n. 548, agosto 1940.

In piena conformità all’esigenza di celebrare il lavoro di civilizzazione svolto dal popolo italiano, la Mostra si proponeva di officiare le opere, le gesta, le esplorazioni e le infrastrutture realizzate dagli italiani in Africa. Tale narrazione retorica prediligeva, in particolar modo, l’esaltazione del “genio italiano” nei paesi colonizzati da altre potenze europee, soprattutto Francia e Gran Bretagna.

In tale ottica, il percorso espositivo allestito da Ugo Ortona, celebrava le “eroiche imprese” degli esploratori italiani nel continente africano, come quelle intraprese nel ‘400 del mercante genovese Antonio Malfante, che dalle coste algerine attraversò il Sahara spingendosi fino al Mali, o i viaggi intrapresi nel ‘600 dall’esploratore friulano Antonio Zucchelli alla scoperta dell’Africa equatoriale, nei regni del Congo e dell’Angola.

Particolare attenzione fu data all’esaltazione del lavoro italiano in Egitto, specialmente nella realizzazione di quella che, allora come oggi, è considerata la più grande opera ingegneristica realizzata nel continente africano: il Canale di Suez. La Mostra, pertanto, non poteva non ricordare l’ingegnere Luigi Negrelli che ideò, insieme al solido contributo francese, il progetto del Canale. Lavoro che poté così assicurare all’impresa un “inconfondibile carattere d’italianità”.

Padiglione del lavoro Italiano in Africa, sezione dedicata al Canale di Suez. Foto: Emporium, Vol. XCII, n. 548, agosto 1940.

La Mostra celebrava anche le grandi scoperte archeologiche rinvenute in Egitto nell’800 ad opera degli esploratori italiani. Particolare attenzione fu riservata alla figura di Giovanni Battista Belzoni, primo archeologo italiano, e alle sue importanti scoperte nella Valle dei Re di Luxor, a Karnak e nelle oasi di Bahariya. Ma il nome di Belzoni fu celebrato soprattutto per le due grandi imprese che lo resero un vero e proprio “mito” dell’archeologia. Fu Belzoni, infatti, a scoprire l’ingresso alla piramide di Chefren a Giza e il primo ad accedere nel tempio di Abu Simbel.

La Mostra ricordò anche il lavoro di Giovanni Battista Caviglia, amico del Belzoni, che partecipò al dissotterramento della Sfinge di Giza e le esplorazioni di Bernardino Drovetti, le cui preziosissime collezioni archeologiche costituiranno la base espositiva dei principali musei egizi europei, come il celebre Museo torinese, quello di Berlino e la sezione egizia del Louvre.

Infine, in una chiara ottica antifrancese, la Mostra celebrava anche il lavoro svolto dagli italiani in Tunisia. A partire dalla fine dell’800 furono in tanti, soprattutto siciliani, a raggiungere le coste tunisine a tal punto che il numero degli italiani superò di gran lunga quello dei colonizzatori francesi. Tale dato fu riconosciuto anche dell’economista Paul Leroy-Beaulieu, che dichiarò una frase divenuta poi celebre: «La Tunisia è una colonia italiana amministrata da funzionari francesi».

Padiglione del lavoro Italiano in Africa: a sinistra decorazione plastica di Francesco Galante, a destra la stele marmorea di Antonio Maraini. Foto: Emporium, Vol. XCII, n. 548, agosto 1940.

Mostra dell’Africa Orientale italiana

Il percorso espositivo continuava nella Mostra dell’Africa Orientale Italiana. Per la progettazione dei padiglioni fu istituito un concorso nazionale, vinto da tre giovani architetti: Mario Zanetti, Paolo Zella Milillo e Luigi Racheli. Il percorso espositivo comprendeva tre reparti distinti: il Salone d’Onore (ovvero, il Cubo d’oro), un’ampia sezione espositiva organizzata in sette padiglioni e la sezione dei villaggi indigeni.

Il Cubo d’Oro, al cui ingresso dominava la scultura dei “Legionari” ad opera di Vittorio di Cobertando, rappresentava senz’altro il cuore dei padiglioni africani della Triennale d’Oltremare. Dalla singolare forma cubica in cemento armato, l’edificio era rivestito da un insolito mosaico in vetro di colore oro, verde e giallo. I tasselli erano disposti in modo tale da produrre delle insolite fantasie ornamentali, ispirate agli obelischi della città etiope di Axum. Tali stele, realizzate tra il I e il IV secolo, raffiguravano porte e finestre fittizie e assolvevano ad una specifica funzione sepolcrale: servivano per indicare la posizione delle tombe sottostanti.

Padiglione dell’Africa Orientale Italiana, “I legionari” di Vittorio Colbertaldo. Foto: Federico Patellani, Lombardia Beni Culturali.

 

Cubo d’Oro. Foto: Emporium Vol. XCII, n. 548, agosto 1940.

 

Stele di Axum, Etiopia.

Al suo interno, il Cubo d’Oro presentava un pavimento in marmo bianco al centro del quale i visitatori potevano ammirare un grande mappamondo, anch’esso in mosaico, raffigurante i possedimenti italiani in Africa. Le pareti, invece, erano decorate da due affreschi realizzati da Giovanni Brancaccio. Tra questi ricordiamo “L’esaltazione dell’Impero di Roma e del Littorio”, che mostrava un Duce trionfante a cavallo. Le altre pareti del Cubo d’Oro, invece, riportavano le iscrizioni della Proclamazione dell’impero di Mussolini nel maggio del 1936.

Terminata la visita al Salone d’Onore, la mostra proseguiva con sette padiglioni espositivi ai quali si accedeva mediante una luminosa passerella colonnata. Ogni edificio era dedicato ad uno dei sei governi italiani in Africa Orientale: Eritrea, Somalia, Amara, Harar, Scioa e Galla/Sidamo.

Padiglione Mostra dell’Africa Orientale, passerella d’accesso. Foto: Federico Patellani, Lombardia Beni Culturali.

A loro volta, ogni padiglione era suddiviso in tre sezioni: “ambiente fisico-naturale”, ”etnico-storico” e “colonizzazione”. Al loro interno si susseguivano svariate esposizioni, come quelle dei costumi, degli utensili e dei prodotti di artigianato provenienti dalle colonie africane. Non mancavano, inoltre, alcune preziose testimonianze artistiche e archeologiche, come le sculture in legno somale, le pitture indigene della Scioia, due lapidi tombali rinvenute nell’arcipelago eritreo del Dahlac e varie tipologie di maschere antropomorfiche.

Villaggi indigeni e Laghetto di Fasilides

Terza e ultima sezione della Mostra dell’Africa Orientale Italiana era costituita da una vasta area verde di felci, ginepri, baobab, acacie, palme e tamarindi provenienti dalle colonie africane. Tra questi arbusti sorgevano le ricostruzioni di alcuni tipici insediamenti africani. In tale sezione, nota anche come l’area etnografica dei “villaggi indigeni”, il visitatore poteva osservare tende, capanne in paglia, abitazioni tucul, case hudmò in argilla e ghebì etiopi.

Ogni villaggio era abitato da persone provenienti dalle colonie africane. Quella dei villaggi indigeni, purtroppo, era una componente fieristica assai diffusa nelle esposizioni europee della prima metà del ‘900, con la loro terribile riduzione di vive comunità sociali a mero “materiale d’esposizione etnografica”.

Villaggi indigeni. Foto: Federico Patellani, Lombardia Beni Culturali.

Stando alle fonti dell’epoca, i villaggi indigeni erano abitati da 57 persone, rappresentanti di vari gruppi etnici africani (eritrei, somali, etiopi). Dei 57 indigeni, 7 erano bambini, ai quali presto se ne aggiunsero altri 2 nati nel periodo di permanenza nella Mostra. Alla luce delle leggi razziali, la Triennale d’Oltremare ospitava un’apposita sezione della Polizia Africana Italiana (PAI), allo scopo di controllare e limitare il rischio di contatto tra gli italiani e gli indigeni.

Villaggi indigeni. Foto: Federico Patellani, Lombardia Beni Culturali.

La sezione etnografica ospitava anche tre edifici religiosi: una piccola moschea, una chiesa copta e il celebre Laghetto di Fasilides. Quest’ultimo è la ricostruzione di una particolare architettura della città etiope di Gondar, nota come Bagno di Fasilide: un’ampia vasca rettangolare al cui centro sorge un edificio simile ad un piccolo castello. Tale “Bagno” è utilizzato nelle cerimonie del Timkat – la principale festività copta – nel corso della quale la vasca è riempita d’acqua per favorire l’immersione dei fedeli, che così possono rievocare il battesimo di Gesù nel fiume Giordano.

A sinistra, il Bagno di Fasilides di Gondar, Etiopia. A destra, il Laghetto di Fasilides della Mostra d’Oltremare.

 

Villaggi indigeni, chiesa copta e baobab. Foto: Federico Patellani, Lombardia Beni Culturali.

Gli edifici superstiti

Sono pochi gli edifici superstiti delle mostre africane. Il padiglione della Mostra Italiana in Africa è stato demolito e il suo posto è oggi occupato dall’orribile padiglione 5 in vetro e cemento, gemello del vicino padiglione 4. Autentici “pugni nell’occhio”, inesorabilmente inconciliabili con la raffinatezza stilistica dell’intero complesso architettonico – oltreché ideologico – della Mostra d’Oltremare.

Dei sette padiglioni espositivi della Mostra dell’Africa Orientale ne sopravvive uno solo, oggi sede di un’attività privata. Il 7 maggio 2010, in occasione del settantesimo anniversario della nascita della Mostra d’Oltremare, il Cubo d’Oro è stato recuperato e nuovamente destinato a spazio espositivo e conserva ancora le due opere pittoriche del Brancaccio. Ma dopo appena dieci anni dal suo recupero, il suo particolare mosaico di vetro ha iniziato a cedere e per questo la base dell’edificio è oggi rivestito da una rete di protezione.

Cubo d’Oro, oggi. Foto: Marco Ciotola.

Il recupero del Laghetto di Fasilides risale al 2004, mentre la chiesa copta è ridotta a un cumulo di macerie letteralmente divorate dalla vegetazione. Si è persa ogni traccia, invece, della piccola moschea.

Laghetto di Fasilides, oggi. Foto: Marco Ciotola.

Bibliografia
– Bacichi O., Cepollaro A., Costantini V., Dal Pozzo Gaggiotti A., Zaghi C., La prima mostra triennale delle Terre Italiane d’Oltremare, Emporium Vol. XCII, n. 548, agosto 1940, Bergamo.
– Deplano V., La madrepatria è una terra straniera: libici, eritrei e somali nell’Italia del dopoguerra, Firenze 2017.
– Siola U., La Mostra d’Oltremare e Fuorigrotta, Napoli 1990.
– Stenti S. e Cappiello V. (a cura di), Napoli guida e dintorni. Itinerari di architettura moderna, Napoli 2010.

Sitografia
– Ferlito A., Re-inventare l’italianità: la Triennale delle Terre italiane d’Oltremare di Napoli, contributo pubblicato su roots§routes.


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