La “Napoli porosa” di Benjamin: la città con “l’eterna passione per l’improvvisare”


Napoli è forse una delle città d’Europa che più ha affascinato il mondo dell’arte, della poesia, della musica, della filosofia. Scrittori, poeti, pittori e filosofi ci hanno lasciato “immagini” di Napoli ormai celebri in tutto il mondo. Tra queste immagini, però, ce n’è una tanto interessante quanto poco conosciuta: si tratta della “Napoli porosa” del filosofo tedesco Walter Benjamin.

Che sia un’immagine così poco conosciuta lo dà a vedere anche il fatto stesso che l’edizione completa di tutte le note contenute nel dattiloscritto della prima redazione dell’opera è stata stampata per la prima volta proprio quest’anno. Il breve saggio, infatti, è a cura di Elenio Cicchini ed è stato stampato dalla libreria napoletana Dante & Descartes.

Dopo circa venti viaggi a Napoli, Walter Benjamin, nel 1924, decide di scrivere “Napoli porosa” durante un soggiorno a Capri di sei mesi in compagnia di Asja Lacis, attrice e drammaturga attiva in Germania e in Unione Sovietica e collaboratrice di Brecht e Piscator. Durante il soggiorno, infatti, i due si occuperanno anche di redigere il manifesto del Teatro proletario per bambini di Orël fondato dalla stessa Lacis.

L’immagine di una “Napoli porosa” nasce, in prima battuta, dalla percezione delle architetture cittadine in tufo tipico (quel tufo che, per Erri De Luca in “Tufo” (1999), è costitutivo anche della voce). La “porosità” della città, però, si estende ben presto a tutti gli aspetti di essa: dagli abitanti alle abitudini di questi ultimi, dal lavoro alle festività del posto.

La “porosità di tutte le cose” di certo non è un concetto nuovo: a partire dagli atomisti (ad esempio, Leucippo e Democrito) la materia viene concepita come porosa. I corpi sono composti, infatti, da atomi che, venendo a contatto, si compenetrano attraverso spazi vuoti, appunto, i pori. È, dunque, attraverso la compenetrazione di pori e atomi che le immagini delle cose si materializzano agli occhi del fruitore.

Ciò che Benjamin percepisce come “poroso” nella città di Napoli, dunque, è la compenetrazione di aspetti assai diversi che si mescolano inesorabilmente in un’unica immagine della città. Nulla a Napoli è chiuso in se stesso, nulla è definitivo e definito: “Nessuna situazione, per come essa appare, è pensata una volta per sempre. Nessuna figura reclama il suo “così e non altrimenti”.

napoli porosaÈ a Napoli che la religione si mescola col folklore:
“(Il Cattolicesimo) se dovesse scomparire dalla faccia della terra, i suoi ultimi sospiri non giungerebbero da Roma, bensì da Napoli. […] Il popolo ha bisogno del Cattolicesimo, perché con esso una leggenda, il giorno di un martire sul calendario, agiscono come istanza di legittimazione dei suoi eccessi”.

La giustizia si mescola con la malavita:
“Chi a Napoli subisce un torto, e intende rifarsi, non si rivolge alla polizia: laddove non può fare da sé, il malcapitato agisce per interposta persona (civile o religiosa), oppure si rivolge a un camorrista”.

Il paesaggio si mescola con l’antropico:
“Una sola linea costiera si estende in pianura, alle cui spalle, invece, gli edifici si affastellano l’uno sopra l’altro. Palazzi di sei sette piani, collegati al suolo da vertiginose scale, sembrano, se paragonati alle ville, veri e propri grattacieli”.

Il giorno feriale si mescola col festivo:
“Questa musica è residuo dei giorni di festa passati e, insieme, preludio di quelli futuri, poiché il giorno di festa permea irrefrenabilmente ogni singolo giorno di lavoro. […] Un granello di domenica si cela dietro ogni singolo giorno della settimana, e quanti giorni della settimana sono contenuti in questa domenica!”

La vita privata si mescola con la vita pubblica:
“Diffusa, porosa, disseminata è la vita privata. […] L’esistenza, che per i nordeuropei è la più intima delle faccende, qui a Napoli diventa un fatto collettivo. La casa per i napoletani non è un asilo in cui si rifugiano gli uomini, ma un serbatoio da cui senza sosta si riversano all’esterno”.

La lingua si mescola col gesto:
“La lingua dei gesti è qui più viva che in qualsiasi altro luogo in Italia. Il loro modo di comunicare resta per i forestieri impenetrabile”.

E, infine, è a Napoli che la miseria si mescola col lusso:
“Veri e propri laboratori di questo processo di permeazione sono i caffè. La vita, qui dentro, si svolge senza mai ristagnare. Si tratta di spazi scarni e aperti, simili a caffè popolari per operai, tutto il contrario dei caffè viennesi intesi come ristretti circoli letterari della borghesia”.

Ma la citazione più emblematica sulla porosità di Napoli e dei napoletani che si può ricavare da questo brevissimo saggio e con cui vale la pena concludere il discorso, è la seguente: “Porosità significa non solo, o non tanto, l’indolenza meridionale nell’operare, bensì piuttosto, e soprattutto, l’eterna passione per l’improvvisare”.


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