Pasolini e il suo legame con Napoli: il Gennariello inventato in “Lettere Luterane”


Artista a trecentosessanta gradi, Pier Paolo Pasolini nacque a Bologna il 5 marzo 1922 e morì (in circostanze dai contorni ancora misteriosi) a Roma il 2 novembre 1975. Aveva 53 anni, la gran parte dei quali spesi nel e per la letteratura, il cinema, il teatro, il giornalismo, sempre imbevuti delle sue idee pungenti e spesso anticonformiste. Originale non solo nelle sue riflessioni, ma anche nelle modalità con cui sapeva esporle, come quel trattatello pedagogico consegnato idealmente a un inesistente Gennariello napoletano, dietro il quale si cela una critica ironica e cinica della società di massa e dei consumi, figlia del ’68 e del boom economico; e che allo stesso tempo mostra un certo legame civile con Napoli e la sua “tribù”, alla quale affidò un compito molto importante.

C’è tutto questo in “Lettere Luterane”, titolo definitivo dell’opera, che si presenta come una raccolta estremamente variegata: contiene, infatti, gli articoli di Pier Paolo Pasolini pubblicati sul Corriere della Sera a partire dal luglio 1975 all’ottobre dello stesso anno; quelli del settimanale “Il Mondo”, nella rubrica “La pedagogia”; la relazione al congresso del Partito Radicale, letta due giorni dopo la morte dello scrittore; I giovani infelici, testo scritto agli inizi del ‘75; e infine tre testi poetici, collocati in appendice, legati al tema pedagogico. L’opera è stata pubblicata postuma nel 1976, a pochi mesi dalla morte di Pasolini.

Nel “progetto dell’opera” è lo stesso autore a delineare i temi indirizzati al quindicenne ragazzino partenopeo: nei primi capitoli si parla delle principali fonti educative dei giovani, ovvero gli oggetti, le cose, le realtà fisiche che circondano gli adolescenti e che parlano loro con il linguaggio pedagogico delle cose; i compagni, veri educatori di Gennariello, poiché portatori di nuovi valori; i genitori, ufficialmente i suoi veri educatori, ufficiosamente i suoi diseducatori; la scuola, fonte di una completa diseducazione; e infine, la stampa e la tv, spaventosi organi pedagogici che non hanno alternativa.
La seconda parte di “Lettere luterane” tratta – stando a Pasolini – di argomenti ancora più importanti: il sesso, il comportamento, la religione, la politica e l’arte.

Ma se il fine pedagogico e quello critico emergono abbastanza chiaramente tra le pagine dell’opera, c’è da chiedersi perché Pasolini si rivolga proprio ad un napoletano e non a un più generico italiano. Una risposta ha provato a fornirla Erri De Luca in un’intervista concessa al Corriere della Sera nel lontano 1994: “Napoli sfugge ai predicati assoluti, alle definizioni che mirano ad ingabbiarla. Chi prova a colpire il centro, manca il bersaglio. E’ capitato anche a Pasolini. Lui, però, aveva una botola segreta che, in genere, gli intellettuali non posseggono: conosceva il corpo. E questa, forse, rimane l’ unica città dove la fisiognomica sopravvive all’erosione dei lineamenti. Qui le persone hanno ancora una faccia. Ecco, credo che Pasolini amasse soprattutto quest’aspetto di Napoli.

Amava, però, anche altro Pasolini: “Io so questo: che i napoletani oggi sono una grande tribù, che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg o i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare. Questa tribù ha deciso – in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte – di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia o altrimenti la modernità. La stessa cosa fanno nel deserto i Tuareg o nella savana i Beja (o fanno anche, da secoli, gli zingari): è un rifiuto, sorto dal cuore della collettività (si sa anche di suicidi collettivi di mandrie di animali); una negazione fatale contro cui non c’è niente da fare. Essa dà una profonda malinconia, come tutte le tragedie che si compiono lentamente; ma anche una profonda consolazione, perché questo rifiuto, questa negazione alla storia, è giusto, è sacrosanto. La vecchia tribù dei napoletani, nei suoi vichi, nelle sue piazzette nere o rosa, continua come se nulla fosse successo a fare i suoi gesti, a lanciare le sue esclamazioni, a dare nelle sue escandescenze, a compiere le proprie guappesche prepotenze, a servire, a comandare, a lamentarsi, a ridere, a gridare, a sfottere; nel frattempo, e per trasferimenti imposti in altri quartieri (per esempio il quartiere Traiano) e per il diffondersi di un certo irrisorio benessere (era fatale!), tale tribù sta diventando altra. Finché i veri napoletani ci saranno, ci saranno; quando non ci saranno più, saranno altri (non saranno dei napoletani trasformati). I napoletani hanno deciso di estinguersi, restando fino all’ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili e incorruttibili”. Queste le testuali parole che l’intellettuale friulano dettò al giornalista napoletano Antonio Ghirelli durante le riprese del suo “Decameron”, ambientato proprio a Napoli, e poi trascritte nel testo “La napoletanità”, del giornalista medesimo.

Ecco che allora “Lettere luterane” diventa un elogio di quella che Pasolini definisce “l’ultima metropoli plebea, l’ultimo grande villaggio” da opporre al “genocidio culturale della società dei consumi”. Napoli che resta aggrappata a dei valori ancestrali, all’arte di essere se stessi che non fa il paio con l’arretratezza, ma con la difesa delle proprie identità culturali, pur nei cambiamenti che già Pasolini intravedeva anche tra i vicoli partenopei. Napoli governata da molti, ma dominata solo da se stessa.

E’ alla fierezza innata e forse anche inconsapevole di Gennariello, dunque, che l’intellettuale affida la sua denuncia antiborghese ma – in ultima analisi – anche la sua preoccupazione per l’incessante moto della globalizzazione: chiede alle nuove leve napoletane di resistervi! Se ci siamo riusciti oppure no, è una risposta che ogni Gennariello può provare a darsi da solo.


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