Fca, polemiche per il Prestito di 6 miliardi garantito dallo Stato: “Hanno sufficienti mezzi”


In questi due mesi sono tantissime le aziende e i piccoli imprenditori italiani in crisi a causa del coronavirus. Fa allora discutere la scelta del governo di dare un prestito al Gruppo Fca di 6.3 miliardi per una multinazionale che per motivi fiscali non ha più la sede nel nostro Paese. Infatti la famiglia Agnelli ha ottenuto un prestito da Intesa San Paolo grazie alla garanzia della Sace (una società controllata dallo Stato). Ma Fca ha la sede legale in Olanda e quella fiscale in Gran Bretagna.

Una decisione che fa discutere. Anche perché recentemente il gruppo della famiglia Agnelli ha comprato tre quotidiani nazionali, ultimo ‘La Repubblica’. Cambiato il direttore e sostituito con Molinari già si registrano le prime tensioni interne. Il cdr del quotidiano ha scritto un comunicato su questo prestito, comunicato che il neo direttore ha deciso di non pubblicare facendo infuriare i giornalisti:

“Alla luce della richiesta del direttore Molinari di non pubblicare il comunicato del Cdr sul caso prestito Sace-Fca è convocata l’assemblea alle 15. All’ordine del giorno, ci sono solo due punti: “ricadute del caso Fca” e “dimissioni del Cdr”.

Sul giornale infatti il prestito è stato descritto come ‘una formula innovativa’ e la scelta di spostare la sede dell’holding fuori dall’Italia è stata così raccontata:

“E’ stata ed è comune a molte multinazionali italiane, compresi gioielli come Ferrero e Luxottica, non solo per i vantaggi fiscali offerti da altre legislazioni, ma anche per la linearità del diritto societario che in Italia è difficile trovare”.

Su questa delicata situazione si è espresso anche il ministro per il Sud, Peppe Provenzano in un lungo post sul suo profilo Facebook:

“La richiesta di FCA di poter accedere alle ingenti garanzie pubbliche previste dagli ultimi decreti del Governo ha sollevato un dibattito politico acceso, che però non riguarda solo l’azienda e il suo legame con l’Italia ma una questione generale – democratica e liberale – sul rapporto tra Stato e imprese in questa nuova fase di crisi. Qualcuno vorrebbe derubricare la questione a tema da anni ’50, e invece è di straordinaria attualità in tutto il mondo. Perché è tanto difficile farlo in Italia? Dico la mia, andando per punti e scusandomi per la lunghezza.
1. Nei giorni scorsi, il Pd, con Andrea Orlando, ha posto un tema importante che avrebbe dovuto essere ovvio: se lo Stato partecipa al funzionamento di un’impresa, allora è giusto che questa – in piena autonomia – fornisca delle garanzie occupazionali, sociali e, più generalmente, democratiche oltre che sul mero rimborso dei prestiti. Il titolo dell’intervista ha deviato da una discussione seria sul tema. Invece, era il caso di farla, anche perché oggetto delle decisioni assunte in queste settimane. Per le garanzie ai prestiti, il Governo ha previsto nei vari decreti alcune condizionalità, e precisamente: avere sede legale in Italia, non distribuire i dividendi, impegnarsi a orientare quei finanziamenti a tutelare occupazione e capacità produttiva nel nostro Paese. Queste condizionalità hanno un impatto importante sulle Pmi. La questione è come attuarle – prevedendo condizioni specifiche – per grandi prestiti a grandi multinazionali.

2. FCA infatti oggi non è (più) un campione industriale italiano ma una multinazionale con investimenti in tutto il mondo, sede legale a Londra e fiscale in Olanda. Nessuno, al di fuori di alcuni alti dirigenti dell’Agenzia delle Entrate e del management internazionale di FCA, conosce con esattezza come sono distribuiti i profitti delle varie filiali e come ripartisce il carico fiscale nei vari paesi in cui opera. In generale, come ha scritto il responsabile economico del Pd, Emanuele Felice, le istituzioni pubbliche ignorano totalmente la “responsabilità fiscale complessiva” di FCA. A livello europeo è bloccata (per l’opposizione di alcuni paesi, tra cui quelli in cui FCA ha trasferito le sue sedi) ormai da qualche anno una direttiva che renderebbe obbligatoria la pubblicazione dei “country by country report”. Noi dobbiamo accelerare l’adozione della direttiva ma, intanto, non sarebbe un atto di buona volontà e senso civico, per FCA valutare spontaneamente di condividere con il governo italiano i suoi “country by country report”, anche per rendere meno discrezionale, nel caso di una grande azienda, la scelta di offrire grandi garanzie pubbliche? Sappiamo tutti benissimo quali e quanti siano gli investimenti dell’azienda nel nostro paese e quanto contribuisca (pure sul fronte fiscale) al funzionamento della nostra economia. Ma dall’annuncio di “Fabbrica Italia” è mancato un dibattito su quanto sia stata attuata e quanto si dovrà attuare alla luce dei mutamenti societari e di mercato. È possibile, in un nuovo orizzonte di innovazione, riprendere il discorso interrotto su Termini Imerese? Dopotutto, si tratta di discutere strategie industriali, tutti i Governi lo fanno.

3. Non è qui il caso di ripercorrere le alterne vicende nazionali che hanno visto protagoniste FIAT e la Famiglia Agnelli ma non penso sia uno scandalo o una sorpresa per nessuno rilevare come il loro rapporto con l’Italia sia stato tutto fuorché ispirato al liberismo classico. Romano Prodi si è recentemente espresso con preoccupazione riguardo l’intera vicenda ricordando che “FCA non è più una impresa italiana” e che “è assolutamente legittimo finanziarla ma occorrono garanzie”. È infatti in corso una complessa operazione di fusione con la francese Psa, ed è essenziale capire il ruolo dell’Italia all’interno del perimetro del gruppo. Anche questo richiede adeguate garanzie. La Fiat è un pezzo di storia di questo paese e il suo allontanamento dall’Italia è una ferita e ha segnato una sconfitta industriale di cui solo ora iniziamo a intravedere le conseguenze. Proprio per questo motivo, però, non possiamo permetterci nuovi errori. Lo dobbiamo agli Italiani – che con le loro tasse finanzieranno questi prestiti – e ai tanti imprenditori, non solo piccoli e medi, che ogni giorno lavorano e investono per rafforzare questo Paese. Senza volare ogni settimana a Londra o Amsterdam.

4. Sul giornale ora di proprietà del gruppo di cui fa parte FCA, si giustifica la scelta, compiuta anche da molte altre multinazionali, “non solo per vantaggi fiscali offerti da altre legislazioni, ma anche per una linearità del diritto societario che in Italia è difficile trovare”. Il Presidente Conte l’altro ieri ha detto che il Governo è impegnato a lavorare per rendere il nostro Paese più attrattivo per le aziende, in termini fiscali e di diritto societario. Con il decreto Rilancio è caduto l’alibi del “voto plurimo”. Io penso che l’Italia non deve perdere di vista l’obiettivo fondamentale nell’interesse nazionale: agire in Europa per modificare un equilibrio che tollera il dumping fiscale di troppi Paesi membri, non limitare questa battaglia a livello extraeuropeo. Ricordo peraltro che nella partita politica che si sta giocando in seno al Consiglio europeo ritroviamo quei Paesi in prima linea per ridurre l’impatto e l’incisività di qualunque strumento di investimento comune. Si parla molto di “strumenti innovativi”, nella finanza e negli standard legislativi. Anche davanti alla sfida senza precedenti della pandemia, non possiamo utilizzare la parola “innovazione” come foglia di fico per espellere i rapporti di forza dal discorso pubblico, in Europa e in Italia.

5. In questa discussione pubblica, democratica, non si possono ignorare infatti i rapporti di forza. Anche in una fase in cui, con un certo ritorno di normalità, torna la discussione sul cambio di maggioranza e di Governo. È un tema posto con forza all’opinione pubblica, basta leggere i giornali. Ogni critica è legittima, persino benvenuta. Ma la democrazia non si nutre solo di “opinione pubblica”, vive nei rapporti di forza. Su questo Andrea Orlando ha fatto un ragionamento politico, che riguarda le asimmetrie di potere economico e informativo che influenzano l’opinione pubblica. E non quella astratta (che non esiste nemmeno a Londra o ad Amsterdam), quella reale. Per troppo tempo, nell’ampio campo democratico e anche a sinistra, abbiamo considerato l’espressione “conflitto di interessi” solo in riferimento a una persona: Silvio Berlusconi. Eppure uomini come Guido Rossi ci avvertivano già vent’anni fa dell’esistenza in Italia di un “conflitto epidemico”. Oggi il tema è ancora più attuale, per la concentrazione proprietaria dei mezzi di informazione. Liquidare questo tipo di riflessioni accostandole al vergognoso gorgo degli attacchi sguaiati rivolti a Silvia Romano o alla Senatrice Segre, oppure tentare di ridicolizzarle parlando di Unione Sovietica o “populismo economico”, è un modo inaccettabile di cambiare argomento. Non possiamo permettercelo, tutte le questioni poste richiamano grandi principi liberali. Ma troppi liberali italiani se lo dimenticano (meno male che Carlo Calenda c’è).

L’ex ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda, oggi parlamentare europeo, ha infatti scritto su twitter:

“Te lo spiego in parole semplici 1) FCA non ha mai rispettato il piano degli investimenti previsto per l’Italia; 2) avrebbe la liquidità per sostenere il gruppo ma la tiene nella capogruppo per distribuire un maxi dividendo pre fusione PSA: 3) quel maxi dividendo non verrà tassato”. 

E incalza:

“Mi devono però spiegare perché non sono d’accordo sul fatto che una società che ha 28,5 bn di mezzi propri, chieda una garanzia dello Stato per 6,3 mld per una controllata, debba impegnarsi a non distribuire dividendi”. 

“Dal 1,5 mld la legge prevede la discrezionalità del finanziamento ergo puoi mettere condizioni. Gli investimenti, 5 mld, previsti e sbandierati dal piano. Azienda privata con sufficienti mezzi propri che chiede una garanzia allo stato invece di garantire lei il prestito”.


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