Tu cosa avresti fatto in 90 secondi?


90 secondi prima che tutto si spenga, che il nulla prende il sopravvento su quella che era la tua vita. Secondo gli studiosi sono solo 90 i secondi a disposizione per liberarsi da un’auto che affonda.  Gli ultimi 90 secondi di Anna e Nunzia. La notizia su Ilfattovesuviano.it

Quanto durerà la lettura di questo pezzo? Grossomodo il tempo che c’è voluto alla Fiat Panda con a bordo Nunzia Cascone e la figlia Anna Ruggirello, la mattina di giovedì scorso, per precipitare dalla rotatoria di via Ripuaria al fondo melmoso del Sarno, dopo il tamponamento con la Grande Punto guidata da Catello D’Auria, maresciallo della Guardia di Finanza. Un minuto e mezzo, all’incirca. Il tempo di slittare sul fondo stradale bagnato, sfondare il fatiscente parapetto posto a protezione degli argini e volare giù dal ponte.

Secondo i ricercatori di un’università canadese un’auto galleggia per circa un minuto prima di andare a fondo. Il professor Giesbrecht, che ha condotto la ricerca, suggerisce di sfruttare quei pochi secondi per liberarsi dalla cinture di sicurezza, sfondare o aprire il finestrino (il sistema elettrico dell’auto dovrebbe continuare afunzionare per tre minuti dopo l’impatto con l’acqua), e da lì scappare sperando di riuscire a sfuggire alla corrente. Il lato della vettura che ospita il motore affonderà per primo, spesso inclinando l’auto, per questo potrebbe essere possibile aprire una portiera mentre la vettura sta galleggiando, ma sarebbe un errore farlo perché l’auto si riempirebbe immediatamente d’acqua, andando a fondo in una decina di secondi appena.

Quindi, nella migliore delle ipotesi, Nunzia ed Anna avevano a disposizione un minuto per non rimanere in trappola. Sessanta secondi. Per giudicare se siano tantissimi o pochissimi – ammettendo per un attimo, anche solo per ipotesi, che una persona normale coinvolta in un incidente del genere possa viverli tutti interi, quei sessanta secondi – bisognerebbe avere la lucidità di capire immediatamente che cosa succede, accanto a te, fuori di te, e al contempo riuscire a gestire quello che ti succede dentro, nel cervello, nello stomaco, nel cuore, nei polmoni. E fare i conti con il panico che ti soffoca, ti confonde e ti annienta.

Ma si comincia prendendo fiato e cercando di farsi coraggio guardandosi negli occhi, quegli stessi occhi che non vogliono crederci che stia succedendo davvero, che stia succedendo proprio a te. Poi seguono le grida, forse i silenzi, i respiri affannati, i singhiozzi, e le lacrime forse. E la puzza dell’acqua che continua ad entrare. Forse hai il tempo – si fa per dire – di pensare che potresti prendere il cellulare e chiamare. Per l’ ultima volta forse: ma chiamare chi? Un familiare, un amico, i soccorsi? Nessun soccorritore può raggiungerti in 60 secondi. Chi potrebbe…? Basta. Hai già perso troppo tempo a pensare di pensare.  Secondo il professore canadese avresti potuto farcela con un minimo di… ma qui tutto si inclina, vibra, affonda, e l’acqua continua ad entrare e a bagnarti, e hai sempre più freddo, e respirare è sempre più difficile.

Forse non tutto è perduto, perché la speranza è l’ ultima… Ma anche la mamma è lì, pallida e impotente, che non può fare niente per aiutarti. E mi. Mi guarda o forse no, non guarda né me né niente. E pensare che neanche mezz’ora fa, in cucina, mi sorrideva: «Vuoi dell’altro caffè?». Pensare. Un sorriso. L’ ultimo è stato il suo. L’ ultimo, forse. Pensare che… potevamo restare ancora cinque minuti a letto, saltare la lezione all’università, fare un’altra strada. È sempre così, nella vita si può sempre… Se solo avessi voluto. Se non fosse stato…  se non avessi… se.


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