Il soffritto napoletano, piatto dalle origini antichissime ed umili, è un ottimo condimento per la pasta o un secondo molto ricco. Si tratta infatti di una sorta di zuppa di interiora del maiale e sugo, insaporito con rosmarino, peperoncino ed alloro.
Grazie al libro “La Cucina Napoletana”, primo vero ricettario partenopeo (la prima edizione risale al 1965) scritto da Jeanne Carola Francesconi, abbiamo informazioni riguardanti l’origine di questo piatto.
La Francesconi scrive: “Quando non avevamo il pomodoro e nemmeno i peperoni, il zuffritto, o saporiglio, otosciano, questi sono i tre nomi con cui era conosciuto, si mangiava ovviamente privo del suo fiammante colore e, solo parzialmente colorato e ravvivato dallo giallo dello zafferano.”
‘O zuffritto veniva preparato per riciclare tutte le parti del maiale. Nell’antica Napoli c’erano le cosidette venditrici di “zuffritto”, casalinghe che preparavano e vendevano il soffritto per guadagnare qualche spicciolo.
Di mattina presto, ponevano la “fornacella” fuori dalle loro abitazioni, i “vasci” e cuocevano la carne in grossi pentoloni. Le persone che si accingevano ad andare a lavoro a quell’ora arrivavano dalle donne con la “capa e pane” (pezzo di pane) per imbottirla con il soffritto e mangiarla durante la pausa dal lavoro. In questo modo le casalinghe si assicuravano dei piccoli guadagni.
Il celeberrimo poeta napoletano Salvatore Di Giacomo amava particolarmente il soffritto. Scrisse queste parole per omaggiare la taverna “La Paglairella” di Giovanni Solla, al Vasto 65, nel quartiere Vicaria “…Qui veniva a mangiare gente più fine, che sollevava a onori non più immaginati il suffritto…”.
I garzoni della taverne, dove veniva servita la pietanza, erano soliti richiamare l’attenzione dei passanti con le loro voci, riportate in una commedia di Pietro Signorelli da Ulisse Prota Giurleo:
“currite cannaruti, ca mo’ proprio
l′accuppatura de lo tosciano.
E’ cuotto, e tengo pure na veppetella
d’amarena che co l′addore te rezorzeta
no muorto;
currite ‘mbreacune, a sei trise
(tornesi) la carrafa e tengo
la mangiaguerra pure a doje trise.”
Inoltre lo stesso Ulisse Prota Giurleo sostiene di aver trovato, precisamente nel 1743, la ricetta del soffritto manoscritta sul retro di uno strumento notarile, probabilmente dettata da una certa Annarella, proprietaria di una taverna a Porta Capuana, frequentata appunto da legali.
“Prendi un polmone di porco, taglialo a pezzetti e mettilo in una cassarola a soffriggere con inzogna (strutto) abbondante, e se ti piace un senso d’aglio e qualche fronna (foglia) di lauro.
Quando s’è ben soffritto aggiungi un paio di cucchiaiate di conserva di peparoli (peperoni) rossi dolci, per darli un bel colore, e cerasielli (peperoncini piccanti a forma di ciliege) in polvere quanti ne vuoi, per darli il forte, aggiungendovi una competente quantità d’acqua col sale o di brodo, e continua a far cuocere tutto a fuoco lento.
Se dapprincipio non ci hai posto le fronne di lauro e vuoi darli sapore, mettici a questo punto un mazzetto di erbe aromatiche, cioè Rosmarina, salvia, lauro, majorana e peperna.
Quando vuoi servirlo, togli dette erbe e spargilo fumante nei piatti, sopra croste di pane.
Placet Etiam Majestati.”
Foto in alto: Cucina che passione con Vale.