Sasà, da camorrista ad attore: “Salvato dai libri, ma Saviano esalta il male”

Salvatore Striano


Leggiamo tante storie disperate sulla criminalità giovanile napoletana: giovani distrutti dall’ambiente in cui sono nati e cresciuti, incapaci di trovare alternative, destinati a vivere oltre i confini della legalità e della società. La televisione, i media ci raccontano che l’unica alternativa per queste anime è una vita in carcere o una morte precoce, come criminali. La storia di Salvatore Striano, detto Sasà, ci insegna il contrario, ci mostra come la cultura e la volontà individuale può liberare.

Oggi Sasà è un attore teatrale di 43 anni e lavora con nomi importanti del mondo dello spettacolo come i fratelli Traviani e Matteo Garrone, ma la sua vita era iniziata in tutt’altro modo. Un giovane scugnizzo dei Quartieri Spagnoli di Napoli, viveva per strada insieme ai suoi coetanei e quella strada era stata l’unica sua maestra. A 15 anni, un po’ per necessità di guadagni facili, un po’ per proteggere la sua famiglia, iniziò a spacciare e si unì alle file della camorra della zona. L’attività criminale del giovane si interruppe con un arresto ed il carcere gli offrì una nuova strada ed una nuova vita: quella dei libri e della cultura.

Nella sua autobiografia, “La tempesta di Sasà”, edito da Chiarelettere, Striano racconta la sua trasformazione, avvenuta nei 10 anni di carcere passati tra Madrid e Rebibbia. I libri che legge in quel periodo entrano in lui, l’ex scugnizzo si rivede nella Divina Commedia e nelle tragedie di Shakespeare, sostituisce il mondo chiuso dei quartieri con l’universo infinito della letteratura e reinterpretando i suoi personaggi preferiti su un palcoscenico si redime dal suo passato criminale.

Ora Sasà conosce il potere dei libri, sa bene che una penna è più potente di una pistola e riesce a capire chi abusa di questo potere per divulgare il male. A proposito del libro scandalo di Salvatore Riina, figlio del boss Totò, ad esempio, Striano è chiaro:“C’è chi uccide con le armi, Salvatore Riina uccide con la penna” scrive in un passaggio riportato da Linkiesta. Duro anche contro il lavoro di Roberto Saviano: “Esalta il male con la scusa di denunciarlo. Vicino al veleno non mette la medicina. Ha fatto pubblicità ai Casalesi. E’ una macchina commerciale. Nonostante questo, meglio 1000 Saviano e non i personaggi che lui stesso cita”.

Ciò che Sasà, però, preme a trasmettere è l’importanza di un sistema penitenziario basato sulla rieducazione. Per lui, in un carcere dove l’uomo viene trattato come un semplice prigioniero, una bestia da tenere in gabbia, non può esserci redenzione o cambiamento, non viene offerta un’alternativa positiva e l’animo criminale viene soltanto fomentato e compresso. Riguardo alla sua esperienza, infatti, racconta che poteva avere visite coniugali con la moglie solo una volta al mese ed è chiaro che vivere in questo modo, senza affetti, peggiora un animo già devastato dal male. Stesso destino che, per Sasà, coinvolge i preti, infatti si dichiara “amico di Gesù Cristo, ma non sono cattolico. Per la mia esperienza i preti sono persone prive di amore che non aiutano. Giocolieri di anime, dei repressi”.


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