Femminicidi e violenze, la psicologa: “Vi spiego perché gli uomini ammazzano le compagne”


Il 35% delle donne nel mondo nel corso della propria esistenza ha subìto almeno una volta una violenza. Fisica o sessuale che sia, i dati Istat del giugno 2015 dipingono un quadro sconcertante. In Italia sono oltre 6 milioni e mezzo le persone del gentil sesso ad essere protagoniste di una circostanza violenta, escludendo tutti quei casi nei quali non si fa ricorso alla denuncia.

Riguardo ai femminicidi negli ultimi due anni il dato si presenta in calo: nel 2013 il picco massimo registrato dell’ultimo periodo è di 179 donne ammazzate. Dato che fa registrare il segno meno sia nel 2014 con 136 e nel 2015 con 128.

Nella maggior parte dei casi è tra le mura domestiche che si consumano le violenze, in alcuni drammatici casi riempiono le pagine dei giornali quando la vittima viene brutalmente uccisa. I motivi vanno rintracciati essenzialmente nelle relazioni che intercorrono tra l’uomo e la donna, nella disuguaglianza di cui è ancora vittima il sesso femminile.

L’Onu ha parlato della violenza sulle donne come “uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini”. 

Con l’ausilio di una psicologa napoletana proviamo a scendere nelle viscere delle mente umana per comprendere quali sono le cause scatenanti che provocano atti violenti e se è possibile riconoscerli per evitare di sbattere contro un treno in piena corsa.

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Antonella Delle Donne, psicologa, psicoterapeuta sistemico relazionale e consulente tecnico del tribunale di Napoli, disegna un quadro nel quale è possibile orientarsi.

1) Assistiamo quasi quotidianamente a notizie nelle quali le donne sono ammazzate dai rispettivi
compagni o ex compagni. Quali sono solitamente i meccanismi psicologici che spingono a compiere un gesto così estremo?

Uno dei meccanismi psicologici più diffusi è legato alla difficoltà ad accettare la propria donna come “altro
rispetto a me”: tu sei mia, ho bisogno che tu stia con me e non mi interessa quali siano i tuoi bisogni, specialmente se essi contrastano con i miei.

Il comportamento violento nasce da un sentimento di profonda fragilità che non si è in grado di gestire e si
trasforma in azione: rappresenta un modo per contrastare emozioni complesse, minacce di abbandono,
comportamenti “non accettabili” che non possono essere vissuti ed elaborati.

Il rifiuto, la paura di non essere amati o che la propria donna preferisca un altro uomo riattivano sentimenti
di abbandono, di inadeguatezza, di solitudine che hanno una radice profonda, legata alla storia personale e
familiare. La violenza diventa un tentativo di controllare attraverso l’azione la complessità delle emozioni
vissute, di non entrare in contatto con esse.

La questione è davvero complessa, ci sono differenti elementi che entrano in gioco, non solo di natura
psicologica ma anche sociale.

La madri che permettono ai propri figli di assistere a violenze familiari involontariamente passano l’idea che
tutto sommato è normale o comunque accettabile. Sempre più studi evidenziano che le violenze subite o
osservate nella famiglia d’origine e l’instabilità delle figure genitoriali sono fattori che influenzano la
formazione di un comportamento violento in età adulta, è più facile insomma che si utilizzi quelle stesse
modalità in condizioni di sofferenza o stress.

2) Cosa differisce tra gli uomini e le donne, visto che sono rarissimi i casi in cui è la donna a compiere un gesto simile? Sono quasi sempre gli uomini a prodursi in azioni simili.

Per risponderle voglio sottolineare una cosa che mi colpisce molto: solo nel 1975 è stata abolita, in Italia, la
potestà maritale che legittimava un ruolo predominante del marito rispetto a quello della moglie e che gli
permetteva di impartire ordini e divieti alla moglie ed addirittura di punirla laddove lei non lo avesse
assecondato. Le donne erano chiamate ad accettare quello che gli uomini decidevano per loro, a sottomettersi al volere del pater familias per il bene proprio e della famiglia.

Detto questo, un’adesione rigida al modello maschile tradizionale, tipico della cultura patriarcale, appreso
ed interiorizzato attraverso l’educazione ma anche attraverso il contesto socio-culturale di appartenza, può
condizionare notevolmente lo sviluppo dell’identità maschile e le modalità di relazionarsi al mondo
femminile -Tu sei mia, voglio controllare la tua vita e non posso accettare che tu mi contraddica o
addirittura allontanarti da me, non funziona così! -Nonostante oggi molte cose siano cambiate sono numerosi i contesti in cui un uomo è ritenuto virile, forte, vincente se in grado di “tenere a bada” la propria donna, di controllarne il comportamento e di dettar legge. La negazione dell’uguaglianza tra i generi, del libero arbitrio e del valore della figura femminile sono senz’altro alla base del complesso fenomeno del femminicidio.

3) Ci sono dei fenomeni precursori che annunciano in qualche modo la possibilità di arrivare ad una cosa simile?

Quasi sempre, l’uccisione della donna non è altro che l’apice di un continuum di vari tipi di violenza, a
carattere fisico, economico e psicologico da cui è molto difficile difendersi. Molte vittime di femminicidio
erano già note alle forze dell’ordine o ai servizi territoriali, perché avevano già denunciato o segnalato
episodi di violenza e minacce. Alcune volte gli stessi vicini e familiari erano a conoscenza di “tensioni”
all’interno della coppia.

4) Le donne subiscono spesso delle violenze soprattutto in ambito familiare. Cosa dovrebbero fare in tal caso? Lei cosa consiglia? Di lasciare la persona oppure si può valutare un altro tipo di comportamento?

Richiedere un sostegno psicologico/sociale può essere un primo passo per spezzare la ripetitività degli
eventi ed affrontare un percorso di “rottura” del circolo vizioso in cui queste donne sono incastrate.
So che può sembrare banale, detto da una psicoterapeuta, ma è così. C’è bisogno di un supporto per
identificare delle vie di uscita e reggere le varie tappe dell’allontanamento, per salvaguardare sé e, se
presenti, i propri figli.

E’ paradossale ma in molte occasioni ho avuto a che fare con donne che pur raccontando le violenze subite, ai propri familiari o a quelli del marito, venivano scoraggiate dal lasciare il proprio uomo ed incitate a sopportare “perché ogni tanto perde la testa ma ti vuole bene” o perché “in quei momenti non è in sé ma non è sempre così”, fino al punto da essere colpevolizzate per l’intenzione di denunciare il marito ed andar via.

E’ importante che la donna abbia una buona autostima, che sappia riconoscere di avere un rapporto
patologico con il proprio uomo e che si tuteli allontanandosene ma non è facile. Proprio per questo è
necessario un percorso psicologico che permetta una crescita personale della donna, che ne migliori
l’autostima e che l’aiuti a cogliere le risorse, personali e sociali, necessarie per una nuova vita. Si perde il
controllo della situazione perchè si tende a giustificare o minimizzare le condotte aggressive del partner e a
prendersene, in parte, la responsabilità. Può sembrare assurdo ma a volte è più semplice sopportare quello
che già si conosce che affrontare il cambiamento che deriverebbe dalla rottura.

5) Le violenze degli uomini sono diffuse differentemente in base all’estrazione sociale e/o il grado di
istruzione?

L’uomo violento può essere di buona famiglia, avere un buon livello di istruzione ed un lavoro rispettabile.
E’ relativa l’importanza del ceto sociale anche se è innegabile che in contesti più all’antica possa esser più
diffusa una visione patriarcale. La violenza sulle donne è un fenomeno diffuso trasversalmente in differenti
paesi e all’interno di tutte le classi sociali. Ciò che accomuna membri appartenenti a differenti estrazioni
sociali è il non accettare l’autonomia femminile ed il desiderio di sottomettere la donna al proprio potere.
L’attuale fase di mutamento dell’identità femminile, che va verso l’emancipazione e la libertà, è vissuta
dagli uomini come una minaccia al proprio dominio.

Tra l’altro, come abbiamo detto prima, la questione è ancor più complessa, alla matrice sociale se ne
associa una di natura psicologica: spesso si tratta di uomini insicuri, insoddisfatti, con poca fiducia in sé
stessi e sensibili all’abbandono che, piuttosto che lavorare su di sé, considerano le donne responsabili dei
propri fallimenti e scaricano su di loro rabbia e frustrazione.

6) Le è capitato di ricevere da lei degli uomini pentiti che cercavano aiuto per le violenze che
commettevano? Se sì, in quanti ne sono usciti?

Non mi è mai capitato, mentre ho lavorato spesso con donne vittime di violenza di vario genere, talvolta
inviate dai servizi sociali territoriali o dai tribunali.
Nonostante siano sempre più presenti centri anti-violenza e figure professionali che si dedicano alle vittime,
purtroppo in Italia attualmente i programmi di lavoro finalizzati al cambiamento dei partners violenti sono
davvero rari e questo senz’altro non facilita la remissione del fenomeno.
Sarebbe davvero utile attivare, in parallelo, dei lavori di sostegno alle figure violente perché possano essere
guidate verso una crescita personale, che comprenda una diversa gestione delle emozioni.
Un uomo violento non può cambiare con una donna che accetta e sopporta tutto “con amore”, l’unica cura
è la conquista della consapevolezza del problema. Chi chiede aiuto si sente meno solo e può iniziare a
spezzare il pericoloso circolo vizioso instaurato.


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