Urgono nuove analisi per la Terra dei Fuochi. Mappatura superficiale e inadatta


Benedetto de Vivo, docente di Geochimica Ambientale dell’Università Federico II di Napoli, mette in discussione i dati riportati nel dossier relativo alle analisi dei suoli compresi tra Napoli e Caserta.

Il dossier presentato alcune settimane fa al Governo parlava di un 2% di terreni ad alto potenziali tossico, ma secondo il professore questi dati tengono conto dei contaminanti organici cancerogeni solo in minima parte, motivo per cui il valore stimato al 2% sembra essere del tutto parziale e impreciso.

De Vivo, insieme alla sue equipe, ha realizzato la mappatura dei terreni inquinati nella terra dei fuochi, tenendo conto di 53 elementi inorganici, metalli e metalloidi, per circa 1000 campioni di suoli.

Dallo studio pare che in realtà il rischio più alto di patologie tumorali sia in realtà proprio a Napoli. A tal proposito de Vivo dichiara: “Ho fornito questi dati all’assessorato all’Agricoltura della Regione Campania che li ha poi trasmessi al Governo. Si tratta di analisi che ho raccolto nell’ambito dell’area della Terra dei Fuochi. A queste indagini si sono aggiunte alcune analisi sito-specifiche fornite dall’Arpac. L’insieme di questi dati ha portato a quella valutazione del 2-3% di area inquinata, ma si tratta di dati che non sono assolutamente esaustivi. Dire il 2-3% della Terra dei Fuochi è inquinata, significa minimizzare il problema”.

Insomma secondo le ipotesi del docente non c’è affatto da stare tranquilli, perché bisognerebbe portare avanti studi molto più approfonditi anche e soprattutto sui diversi tipi di ortaggi presenti nei terreni.

Pare infatti che alcuni metalli cancerosi non si trasferiscono nei prodotti agricoli, condensandosi però maggiormente nei frutti. Ci sarebbero insomma da analizzare nuovi campioni e da effettuare nuove indagini e nuovi rilievi.

Il docente,  anche direttore del Journal of geochimical exploration, spiega che con meno di un milione di euro si potrebbero effettuare mappature complete in appena 2 o 3 mesi. Uno screening approfondito e capillare sull’intero territorio, portando anche posti di lavoro tra i troppi giovani ricercatori ancora senza lavoro.

 


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