No alla vendita dell’isolotto di Isca, Archeoclub: “Ecco perché è troppo importante”

Foto di Giovanni Iovinella


No alla vendita dell’isolotto di Isca. A chiederlo a gran voce è Stefano Ruocco, Presidente Archeoclub D’Italia sede di Massa Lubrense.

L’Isolotto dell’Isca, – dice – lungo la costa salernitana della Penisola Sorrentina conserva testimonianze storico archeologiche di notevolissima importanza. Nella relazione spieghiamo il perché bisognerebbe impedire la vendita dell’isola di Eduardo. In una relazione che abbiamo presentato alle istituzioni, evidenziamo questa ricchezza e dunque il perché sarebbe importante impedire la vendita dell’Isolotto di Eduardo“.

Isolotto d’Isca, relazione sull’importanza storico-archeologica

Come riporta l’archeologo Paolino Mingazzini nel suo fondamentale studio sull’archeologia sorrentina, confluito poi nel volume Surrentum del 1946 (1): ”La parte più importante dei ruderi della penisola sorrentina è costituita indubbiamente dalle ville costiere […] le ville sorrentine formano un tipo oltremodo interessante, sia per il tipo a cui appartengono, sia per i numerosi particolari che esse presentano. Si tratta, infatti, unicamente di ville costiere, di quelle ville, che Vitruvio chiamava maritimae, tipo raro e poco studiato”.

Queste ville sono dislocate su una costa frastagliata e scenografica la cui collocazione è stata imposta, com’era naturale, dalla particolare natura del terreno, con soluzioni architettoniche spesso ardite e di grande suggestione.

Tra le sei ville marittime meglio conservate che l’archeologo individua lungo la costa sorrentino-amalfitana vi è quella insulare dell’Isca, che appare oltremodo interessante, non solo per lo stato di conservazione, ma anche perché molto varia nel suo complesso. Infatti, pur essendo di piccole dimensioni, consente ancora la lettura dei cinque elementi fondamentali che la costituivano (la domus, le due grotte, il belvedere lungo ed il belvedere sopra il porto).

Passiamo ad esaminare questi elementi “sparpagliati per tutto l’isolotto e disposti con criteri puramente panoramici” rileggendo la descrizione che ne fa Mingazzini:

L’approdo piccolo

La villa ha due approdi che ancora oggi formano i soli punti di sbarco sull’isola. L’approdo A conduceva direttamente alla domus. Ne restano – oltre qualche traccia di cocciopesto – due blocchi in conci di tufo, di cui uno si prolunga ancora nel mare e l’altro a destra del precedente per chi approda all’isola – si trova in una conca, protetto da bassi scogli: sono questi gli ultimi resti della banchina. Un terzo blocco, simile ai precedenti e situato un po’ più in alto del primo, costituisce il collegamento con una rampa che sale alla domus. Gradini tagliati nella roccia e la suddetta rampa, che è sostenuta da muretti in reticolato di tufo, segnano l’antico tracciato della salita stretta e ripida, che in tre tratti conduce al piano dell’isola.

La grande cisterna

Prima di giungere all’altezza della domus, la salita passa lungo il muro esterno della grande cisterna di terrazzamento B. Si tratta del vano più grande che si trova sull’isola.

Vi si notano gli spigoli ricurvi ed il cocciopisto alle pareti e sul pavimento; questo contiene frammenti laterizi e consiste in due strati, di cui uno più rozzo in basso ed uno più fine in alto. Il paramento è caduto lasciando in vista il conglomerato interno di spezzoni di pietra bianca; la volta a botte con tracce del tavolato sul cemento è a metà conservata. La pianta è irregolare, perché la cisterna in parte è appoggiata contro la roccia. Essa era destinata a sorreggere un vano, di cui non è rimasto che un piccolissimo tratto, nel quale si nota un pezzo di parete stuccata, il che indica che questo vano era abitabile. C’era quindi in questo posto un primo gruppo di costruzioni.

La domus

Lasciando a destra questa cisterna, si giungeva ad una terrazza C, riconoscibile solo dai tagli di roccia della spianata, ma tuttavia sicura. La posizione a picco sul mare ed in prossimità dell’approdo, nonché dirimpetto alla costa, rendevano quasi obbligatoria una terrazza in questo punto.

Con molta probabilità c’era un’altra terrazza nella zona rettangolare indicata con la lettera D (m. 0,30 X 4,20), anch’essa ottenuta spianando la roccia in quel punto: esiste tuttavia la possibilità che si tratti di un vano, i cui muri sono però completamente scomparsi.

La domus si compone di due parti, divise per mezzo di un corridoio (E) largo m. l ,35, dai due terrazzi O e D. Sul lato Nord, questo corridoio è interrotto bruscamente da una frana: quasi certamente, girando attorno al vano N, sboccava sulla terrazza O. Dal lato orientale esso conduce alla terrazza D; dal lato Sud porta ad un vano che sembra in parte un sottoscala, in parte un accesso a vani che non esistono più: si tratta evidentemente della scala al piano superiore.

Il vano della scala divide dunque la casa in due gruppi. Quello orientale è costituito da quattro vani: F, G, H, I, tutti, a quanto sembra, cisternoni di fondazione con pavimenti in cocciopisto; i muri, in opera incerta, hanno in parte conservato lo stucco. Il vano F (m. 4,70 X 5,45), mezzo crollato, serviva indubbiamente alla conserva d’acqua perché si vedono gli spigoli arrotondati; la volta, inoltre, poggia quasi direttamente sul suolo. Lo stesso dicasi della volta del vano I (m. 2 X m. 6,50) nel cui centro è praticato un’apertura tonda i del diametro di cm. 50, conservata a metà e costruita in mattoni, indubbiamente destinata ad attingere l’acqua dalla cisterna. L’acqua piovana scendeva evidentemente dalla terrazza della casa.

Gli altri due vani G e H, muniti di volta a botte ben conservata, sono certamente vani di fondazione (m. 3,30 X 3,10; m. 3,30 X 2,80). Che vani abitabili esistessero al piano superiore è attestato, oltre che dalla grossezza dei muri di basso (m. 0,70 i muri perimetrali, m. 0,60 quelli divisori e m. 1,20 quello tra F e gli altri vani), dall’attacco dei muri superiori che si sono salvati insieme ai pavimenti in cocciopisto.

Il secondo gruppo, costituito dai vani L, M, N (m. 2,50 X m. 2,80; m. 3 X m. 2,80; m. 3,50 X m. 3,15) trovasi ad un livello superiore a quello del primo; anzi, corrisponde quasi al livello del piano superiore del primo gruppo (ed N si trova anche leggermente più in alto di L e M), che è poi lo stesso livello del corridoio E e dei terrazzi O e D. Dato lo spessore minore dei muri in confronto a quelli del gruppo F-I, quasi tutti cm. 50, è probabile che qui non sorgesse un altro piano, ma che vi fosse una terrazza. Si notino i due contrafforti dal lato Sud. Le numerose schegge di marmo bianco di cui è disseminata questa zona sono l’unico avanzo della decorazione di questa casa.

Lo xystus

I due muri in cocciopisto ad angolo fra loro, indicati con la lettera O, posti ad un livello più alto del vano soprastante alla cisterna B, sono gli ultimi resti di un vano di terrazzamento d’una rampa che metteva in comunicazione la domus con lo xystus, situato un poco piì1 in là. La struttura è in spezzoni di roccia locale.

Dello xystus che, occupando la sommità dell’isola, doveva avere una notevole estensione, non è oggidi visibile altro che, per una ventina di metri, il bordo del pavimento in cocciopisto, nonché due muri di sostegno sporgenti dal suolo scosceso verso sud ovest. Il suolo nasconde probabilmente gran parte del resto.

Più in là, verso sudovest, un muro a picco sul mare è tutto quello che rimane di un parapetto che girava tutt’intorno ad un’insenatura sulla quale si apre una ampia grotta marina. Non c’è dubbio che unicamente per il panorama fu qui posto un terrazzo protetto dal muretto in questione.

Nulla invece di artificiale sembra esserci mai stato sul versante Sud, ossia dal lato del mare aperto.

L’approdo grande con la scala

Tornando indietro, si giunge all’approdo grande che per mezzo di una lunga scala comunica con lo xystus (fig. 41). In alto, nulla è rimasto dei gradini, ma i tagli nella roccia danno indizio sicuro che la parte superiore perduta continuava sullo stesso asse della parte inferiore conservata, appoggiandosi con una guancia alla roccia. Il tratto più alto, costretto fra le rupi, è largo m. 1,40, ma, appena il terreno lo permette, la scala si allarga a due metri, fa quindi due gomiti ad angolo retto con i rispettivi pianerottoli – il primo tratto misura metri 1,75, il secondo 3 m. – ed infine scende diagonalmente al mare, dopo aver superato un dislivello di 80 cm., per mezzo di alcuni gradini messi di sbieco, oggi di perduti, ma che debbono aver trovato posto – insieme con un pianerottolo irregolare – davanti al secondo tratto della scala. L’ultimo tratto, infine, è stato distrutto dai marosi e così pure la banchina d’approdo che dobbiamo supporre nella piccola insenatura che ivi si trova.

La scala non si appoggia unicamente sulla roccia, ma dal lato del mare è sostenuta da un muro che in origine doveva essere rivestito di reticolato, poiché una porzione di rivestimento si è salvata sulla parete dal lato del monte, là dove la scala è larga tre metri. Dal lato del monte, poi, la scala fiancheggia per due lati un cisternone. Questo, sul terzo lato si appoggia direttamente alla roccia, sul quarto ne è diviso mediante un’intercapedine. La volta a botte è conservata; in alto v’è un’apertura rettangolare per attingere acqua. Si tratta evidentemente di una cisterna che sorreggeva un terrazzo (pavimento in cocciopisto, pareti rivestite di stucco, angoli smussati).

Le grotte

Dalla banchina doveva partire una comunicazione di un paio di gradini – forse in legno – che permetteva di giungere allo stretto corridoio che con leggerissimo pendio conduce alla Grotta Piccola. È infatti escluso che ci si potesse giungere direttamente dal mare, perché la roccia in questo punto termina a picco sul mare, a m. 2,20 di altezza. La grotta è una cavità naturale piuttosto piccola – (l’altezza massima è di appena tre metri); e naturale è il passaggio fra le rocce per il quale vi si accede; ma con una sistemazione per mezzo di muretti e con la posa d’un pavimento, si ridusse il luogo a ninfèo.

Del tratto anteriore tutto è perduto, ad eccezione della soglia formata da un muro in conci di tufo. La prima parte della grotta – il corridoio – non conserva più il pavimento. Vi si vedono però due canali scavati nella roccia, che, al di sotto dello strato di cocciopisto del pavimento, servivano per il deflusso dell’acqua che nell’interno stillava dalle rocce, oppure dall’esterno penetrava col mare mosso. Per raccogliere l’acqua serviva un canaletto che girava tutt’intorno alle pareti, isolando in tal modo il pavimento della roccia. Resta naturalmente incerto se in questa grotta vi fosse il pavimento in mosaico o no, ma la presenza del sopra descritto sistema di canaletti lo fa supporre.

Il pavimento in cocciopisto è conservato. Le pareti che accomodano le proporzioni della grotta – là dove la grotta si ritrae – sono in reticolato, sul quale sono fissati, con l’aiuto dello stucco, pezzetti di schiuma di mare che dovevano evidentemente ridare alla grotta l’aspetto naturale perduto.

Su questa incrostazione artificiale si è poi deposta un’incrostazione naturale, che in alcuni punti ha formato addirittura delle stalattiti. Ed infine i pescatori in cerca di ipotetici tesori hanno praticato nelle pareti dei grossi fori, che hanno finito per dare al ninfèo un aspetto quanto mai pittoresco (fig. 42).

Dalla banchina, una rampa, alternata ogni tanto con dei gradini, conduceva alla Grotta Grande;

oggi non ne restano che cinque gradini tagliati nella roccia a circa 6,50 m. sul livello del mare. La sistemazione artificiale della grotta si riduce al pavimento in cocciopisto, perduto nel tratto anteriore (nel tratto conservato è coperto di stalagmiti) e nella costruzione di un muretto semicircolare del diametro di 7 m. in funzione di sedile, di cui è conservata solo la parte inferiore in spezzoni di tufo.

Di questi elementi architettonici la domus è quella che ha subito sicuramente le maggiori trasformazioni, in quando divenuta il basamento della villa moderna ad inizio secolo e recentemente ristrutturata, come si evince dalla foto al lato.

L’approdo all’isola avviene allo stato esclusivamente dall’attrac-co moderno a valle della villa.

Lo xystus invece è oggi un rigoglioso uliveto mentre i ruderi delle scale di accesso alle grotte/ninfei sono inaccessibili a causa di vari cedimenti verificatisi nel tempo.

Sull’Isca non sono mai stati effettuati scavi regolari, tuttavia nel 1913, quando divenne di proprietà della famiglia Astarita, furono rinvenuti diversi oggetti antichi, tra cui una lucerna di importazione tunisina (2).

Questa lucerna, assolutamente integra, fu poi donata da Mario Astarita a Papa Paolo VI nel 1967 e si trova oggi nella famosa collezione Astarita del Museo Gregoriano Etrusco in Vaticano, anche se non esposta. Non abbiamo notizie invece degli altri materiali rinvenuti.

Per quanto riguarda la lucerna in argilla, sappiamo che è lunga 11,5 cm e larga circa 7,7 cm. Su di essa possiamo vedere un’iconografia molto particolare: sul disco concavo è rappresentato un delfino in rilievo, che nuota verso l’ansa; il corpo è solcato sul ventre, sulla testa e sulla coda. Il delfino era un simbolo importante per gli antichi, esso era considerato l’animale che conduceva sul dorso i defunti fino al soggiorno delle Isole dei Beati.

Il delfino era anche associato ad Apollo, a sua volta assimilato alla figura di Cristo. Presso i fedeli cristiani, dunque, il divino cetaceo appare come un simbolo chiaramente positivo, cristologico. Per quanto riguarda la struttura in sé, possiamo notare i bordi delimitati da una scanalatura e ornati da un motivo a doppia palmetta incisa. Al centro del disco, invece possiamo notare un foro: si tratta di un infundibulum, il foro di alimentazione della lucerna a forma di imbuto. L’ansa, il manico della lucerna, è piena, scanalata e carenata verso il fondo.

In base alla tipologia e all’iconografia il reperto può essere datato negli ultimi anni del IV secolo e inizio del V secolo d. C.

Questo reperto paleocristiano ci riporta immediatamente alla vicina insenatura di Crapolla dove, secondo numerosi storici, sul pianoro soprastante la spiaggetta, sarebbe sorto un tempio dedicato ad Apollo, sui cui ruderi fu eretta la celebre Badia Benedettina dedicata a San Pietro Apostolo. Di questa abbazia sono ancora visibili importanti vestigia, oggetto, da alcuni anni, di importanti studi e scavi ad opera dell’Università Federico II.

In conclusione, questo documento è il frutto semplicemente di contributi bibliografici mancando ad oggi una approfondita indagine archeologica dell’isolotto, che auspichiamo avvenga quanto prima.

D’altronde l’isolotto Isca, trovandosi lungo le più antiche direttrici marittime della costa Tirrena, note fin dal tempo dei Micenei, in un punto strategico, tra le Le Sirenusae (oggi arcipelago de ‘Li Galli’) e il santuario di Athena di Punta Campanella, conserverà sicuramente altre importanti e più antiche testimonianze archeologiche che non possono non essere protette, valorizzate e assicurate nei beni a disposizione di tutta la comunità.

Fonti principali:

(1) P. Mingazzini – F. Pfister, Surrentum “Forma Italiae”, vol. II, Sansoni – Firenze 1946

(2) M. T. Paleani,”Le lucerne paleocristiane”, Roma 1993


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