Coronavirus, 37 miliardi di tagli alla Sanità: gli italiani erano condannati a morte


In queste ore il governo, nella persona del Ministro della Salute, Roberto Speranza, sta dispensando numeri secondo cui i posti in terapia intensiva in Italia sarebbero stati triplicati: “sono 9.081, con un incremento del 75% in meno di un mese, contro i 3.595 iniziali”, ha affermato nel corso dell’informativa di oggi al Senato.

In realtà si tratta della tipica pezza messa a posteriori all’italiana, grazie all’abitudine tutta tricolore di affrontare i problemi sempre quando questi diventano troppo grandi, in via emergenziale. Ciò vale in tutti settori: nella sanità così come nell’istruzione, nei trasporti come nella manutenzione delle strade e così. Compito della politica dovrebbe essere quello di prevenire le emergenze, tuttavia in Italia la consuetudine è quella di piangere a tragedia avvenuta salvo poi continuare a comportarsi come sempre. Gli esempi si sprecano, dalle calamità naturali al crollo del Ponte Morandi.

Un’inchiesta del Corriere della Sera a firma di Milena Gabanelli e Domenico Affinito, pubblicata ieri sera, ha messo in luce un taglio da 37 miliardi di euro operata ai danni della Sanità dal 2012 al 2019 attraverso finanziamenti non realizzati o ridotti. I governi Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte I e Conte II hanno tutti sottratto denaro ad una Sanità i cui costi già venivano adeguati in misura minore rispetto al tasso di inflazione.

Impietoso il confronto con i Paesi con i quali l’Italia vorrebbe competere: nel 2016 l’Italia ha stanziato 1844 euro per abitante per la spesa sanitaria, contro i 3201 della Francia, i 3605 della Germania e i 2857 del Regno Unito. Queste tre nazioni hanno destinato rispettivamente +90%, +165% e +66% di fondi pubblici alla Sanità rispetto all’Italia.

Circa i posti in terapia intensiva, gli ultimi dati risalgono al 2012 e sono stati pubblicati dalla rivista Intensive care medicine. L’Italia contava 12,5 posti ogni 100mila abitanti, il Belgio 15,9, l’Austria 21,8 e la Germania addirittura 29,2. A febbraio 2020 l’Italia era scesa a 8,58 posti in terapia intensiva ogni 100mila abitanti, ancora di meno rispetto al 2012.

Stesso discorso per i posti letto, ma con un’aggravante: si è disincentivato il pubblico per favorire il privato che non assicura gli stessi servizi. Tra pubblico e privato, in Italia nel 1998 c’erano 5,8 posti letto ogni mille abitanti, nel 2007 sono scesi a 4,3 e nel 2017 a 3,6. Circa i posti per i malati acuti, nel 1980 erano 922 su 100mila abitanti, nel 2013 sono diventati 275: peggio di Serbia, Slovacchia, Slovenia, Bulgaria, Grecia. L’Italia ha anche meno infermieri rispetto alla media europea (5,8 contro 8,5 per mille abitanti nel 2017), ma più medici (4 contro 3,6).

Essendo questa la situazione pregressa, non esageriamo nell’affermare che gli italiani erano stati già condannati a morte, soprattutto alla luce di alcuni rapporti dell’OMS che avevano previsto un’eventuale diffusione su scala mondiale di una malattia X. All’inizio del 2018 gli scienziati parlarono di “consapevolezza che una grave epidemia internazionale potrebbe essere causata da un patogeno che attualmente non è noto per causare malattie negli esseri umani”. La pandemia era stata prevista, con tutte le conseguenze sia economiche che sociali, in primis i decessi.

Il ragionamento per essi era semplice: i casi di trasmissione di malattie da animali a umani erano in aumento, da qui una nuova epidemia che ben presto si sarebbe evoluta in pandemia grazie alla globalizzazione e lo spostamento estremamente veloce delle persone in tutto il pianeta. Sapevamo tutto, eppure abbiamo continuato a tagliare.


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