Carnevale in Campania: i modi esagerati di festeggiarlo nella nostra Terra


La tradizione del Carnevale è senz’altro la più ampia e complessa di tutte quelle popolari. Questa festa certamente racchiude in sé gli opposti. Sacro e profano, tragico e comico, vita e morte. Non solo accostamento, ma addirittura unione e reciproca trasformazione. Con il passare degli anni molte feste campane che rappresentavano il periodo carnevalesco sono andate perse o sono state confinate a piccoli centri. Ne sono una dimostrazione le tradizionali questue o “nferte” che i bambini, accompagnati spesso da canti e a volte mascherati, svolgevano presso le case del paese. Questo evento, che avveniva nei primi giorni di Carnevale soprattutto nelle zone interne dell’Avellinese, del Casertano e in più punti del Salernitano, era la risposta ai falò di Sant’Antonio che invece erano più diffusi nel Napoletano.

A Palma Campania, invece, affonda le sue origini nel Seicento la tradizione di festeggiare il Carnevale con tre giorni di Quadriglia. Più di duecento persone mascherate si sfidano in un’avvincente competizione musicale in cui il tempo è dato da strumenti popolari quali tamburelli, triccheballacche, putipù e scetavajasse. Alla fine, il martedì grasso, in base alla musica, particolarità dei costumi e coreografie, una giuria elegge un vincitore.

Nel Napoletano, negli anni passati, i festeggiamenti di Carnevale culminavano solitamente con il processo, la condanna, la lettura del testamento e il funerale di un fantoccio che rappresentava i mali dell’anno passato. La fine violenta del manichino poneva termine al periodo di scherzi, travestimenti e sfrenati festeggiamenti.

Faceva una fine analoga il fantoccio carnevalesco di Sorrento. Fino al 1799 era in vigore lungo la costiera la cosiddetta “A morte ‘e Surriento”. Da due punti opposti della cittadina partivano due carri: uno pieno di prelibatezze con un fantoccio grasso che incarnava il Carnevale; l’altro contenente solo legumi, baccalà e un manichino magro che rappresentava la Quaresima. I due carri andavano a incontrarsi, a mezzanotte, sotto la porta cittadina abbattuta nel 1863 e lì stava un gigantesco scheletro raffigurante la Morte. All’arrivo di Carnevale la falce dell’oscura figura ne tranciava la vita. A quel punto tutti i cittadini si scagliavano sui resti del carro e finivano la festa accendendo un gran falò.

Tarantella montemaranese

Ancora praticata, anche se non più da tutto il popolo, è la tarantella montemaranese eseguita durante il Carnevale in provincia di Avellino. Un tempo, i bambini e anche gli anziani, al seguito di orchestre di clarinetti, flauti e tamburelli, percorrevano il corso di Montemarano caratterizzato da una particolare forma a Y. Il ritmo di questa danza diventava sempre più sostenuto fino a simulare una sorta di delirio collettivo. Anche in questo caso, la danza era un’occasione per dare inizio a una competizione tra più gruppi che si sfidavano il sabato di Carnevale con il lancio di un guanto di sfida. Ogni team era coordinato dal proprio caporabballo che indossava un costume bianco e rosso. L’origine del carnevale montemarese fu divulgata dallo scrittore napoletano Giambattista Basile.

Infine, nel Beneventano, ha origini antiche la “Vecchia con sasicchio”, un evento che si svolgeva gli ultimi tre giorni di Carnevale e che vedeva bambini mascherati bussare alle case per ricevere salsicce, migliaccio e dolciumi vari. Questa tradizione, scomparsa quasi ovunque, è ancora celebrata in alcune cittadine come Bonea.

Fonti: Annibale Ruccello, Rita Picchi, “Scritti inediti”, La Moderna, Roma, 2004

Gaetano Canzano, “A morte ‘e Surriento”, Santagnello, 1883

Biagio Peluso, “Il Carnevale Palmese”, Palma Campania, Domenico Della Corte, 1986

Maria Gabriella Della Sala, “Rito e Magia nella tarantella Montemaranese”, in “Itinerari di tradizione”, a cura della Comunità Montana Terminio-Cerviato


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