Il coprifuoco ferma la Campania, l’altra Italia sceglie di lavorare e guadagnare


Sulla preminenza della tutela della salute pubblica c’è poco o nulla da discutere. Sui nefasti contraccolpi economici che ne derivano per effetto delle misure restrittive imposte dal potere politico si può, invece, aprire una seria riflessione. L’aumento dei contagi nelle ultime settimane fa alzare la soglia di allerta, da nord a sud senza distinguo particolari.

Mascherine obbligatorie in Campania, Sicilia e Lazio. Presto l’obbligo potrebbe investire l’intero territorio italiano. Ma forse non basterà indossare la protezione per arginare una seconda ondata che per la verità appare diversa. Nei sintomi più contenuti con conseguente minor pressione sul servizio sanitario ed omogenea territorialmente nella sua diffusione.

La giornata di ieri segna però il primo spartiacque che scoperchia l’ eterno conflitto di attribuzione di poteri tra regioni e governo centrale. Come promesso o minacciato, a seconda dei punti di vista, De Luca sceglie la via forse più semplice, quella delle restrizioni. Attività commerciali, costrette a chiudere anticipatamente. In serata il premier fa sapere che non intende istituire il coprifuoco per gli esercenti. Il modello campano, se così vogliamo identificarlo, non sarà esteso al resto del Paese. Qualche giorno fa in visita in una scuola di San Nicola La Strada aveva avvertito il governatore delle Campania sottolineando che le regole si decidono insieme e non in ordine sparso. Chiaro che il capo della giunta regionale ha poteri che si sovrappongono a quelli del governo centrale. Non può ordinare un lockdown ma aggiungere norme più stringenti, come di fatto è avvenuto.

Il rischio di dover convivere con le restrizioni per un nuovo lungo periodo riaccende i fantasmi di mesi fa, quando per sessanta giorni circa l’ Italia si è fermata. Ora succede che la Campania rallenta mentre gli altri proseguono a lavorare, a produrre e consumare. Può servire a limitare la diffusione dei contagi? Probabilmente senza omogeneità territoriale, il mezzo stop imposto da De Luca è destinato a fallire. Ma sono le ricadute economiche a far tremare i polsi. È circostanza strutturale ormai nota a tutti, della carenza della macchina produttiva nel Mezzogiorno d’ Italia.

La pandemia ne ha acuito le debolezze, debilitato un malato che stenta a reggersi in piedi. Se ora si è costretti a giocare con meno carte rispetto agli altri, il pericolo di una crisi irreversibile si fa serio. L’allarme è stato lanciato mesi fa dalla Svimez e confermato di recente anche dagli esponenti delle associazioni di categoria. Se la Campania si ferma o rallenta da sola è destinata ad annegare. D’altronde già la ripresina stimata per il 2021, precedente a questi ultimi accadimenti, confermavano i timori. Un Nord capace di rialzarsi con dinamismo a differenza delle regioni della Bassa Italia. Se a questi affanni si aggiungono ulteriori metri in salita, si rischia di non arrivare alla fine della corsa. È un momento storico complicato. Occorre una classe politica capace, responsabile ma al tempo stesso in grado di tutelare la salute ma di non assassinare una economia che in Campania mostra indicatori drammatici. La nostra regione è la prima area d’Europa più esposta al rischio povertà. De Luca deve decidere se far morire di fame i suoi concittadini o aiutarli a stare meglio. Di questo passo non basteranno i fantamiliardi del Recovery Fund.


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